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Metti la cera, togli la cera

L’innominabile direttore editoriale di questa casa editrice è notoriamente un rinoceronte. Almeno per tutti coloro che hanno la disgrazia di frequentarlo per necessità. Ovviamente non agli occhi del povero redattore ordinario, che ben si guarderebbe dal criticare il detentore delle razioni di sussistenza — salario quotidiano del sottoscritto — e che doverosamente si sente di cantarne le lodi e incensarne la lungimirante e illuminata visione culturale.

Per tutti gli altri, è semplicemente uno stronzo, capace di demolire le aspettative di carriera di un giovane e brillante laureato in scienze della comunicazione, magari fornito anche di un variopinto diploma di redattore conseguito in uno degli innumerevoli e autorevoli corsi a pagamento messi in piedi a ritmo settimanale da case editrici più generose e meno retrive di questa. Gli basta in genere uno sguardo gelido e silenzioso per pietrificare l’aspirante.

rinoceronte-carica

Il rinoceronte, tuttavia, forse a causa dell’avanzato stato di senescenza, apre talvolta improvvisi quanto inattesi spiragli di speranza alle giovani leve. In tali, rarissime occasioni, mi fa salire alla luce del sole, ripulire e spidocchiare, e mi concede persino una breve ora d’aria nel verde profondo, a godere la visione del Monviso che si staglia lontano e protettivo. Sostiene che i giovani devono comunque sapere come si riduce un redattore ordinario dopo trent’anni di onorata carriera e davanti ai sorridenti commensali, mi lancia qualche boccone nella ciotola sistemata vicino alla tavola.

rinoceronte con piccolo

Così è accaduto l’altro giorno. Era un bel sabato d’autunno, di quelli in cui il sole ancora tiepido scalda gli animi e un caminetto scoppiettante rallegra i cuori dei commensali. Accovacciato nel mio angolino ho assistito in religioso silenzio al pacato predicozzo introduttivo — lo conosco a memoria confesso — con il quale il rinoceronte tenta di dissuadere un giovane ed entusiasta aspirante redattore dall’intraprendere la strada iniziatica dello scriptorium.

In genere, con la conclusione del predicozzo, giunge l’invito ad aprire una latteria vegetariana, attività considerata dagli operatori finanziari come molto più redditizia dell’editoria. Quando tuttavia il rinoceronte riconosce un suo simile, un potenziale cucciolo feroce, ecco apparire un lampo nello sguardo arcigno del vecchio Jorge, come un accenno di benevolenza verso quell’Adso potenziale.

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Anziché intridere di veleno una pietanza, come accade con gli altri aspiranti, i cui tumuli costellano il parco tenebroso nascosto dietro la sua tetra dimora, in questi rarissimi casi il rinoceronte abbozza un sorriso, saggia la cultura del giovane professo, cita con volontario errore un passo agostiniano, incrocia malefico Bergson sorseggiando un rosso corposo.

Alcuni giorni or sono, un giovane Adso ha superato l’esame e, nella sorpresa incredulità dei commensali, pronti a vederlo crollare con le dita annerite e la lingua enfia, è stato addirittura invitato a salire nella torre. Hic sunt leones, si narrano leggende oscure sulla fine atroce di coloro che hanno salito la stretta scala a chiocciola che conduce al tempio del rinoceronte senza averne ricevuto esplicito invito.

Era accaduto soltanto quattro volte in più di trent’anni, e in tutte queste occasioni quei giovani professi sono oggi abati pasciuti o badesse riverite, le cui opere hanno varcato i confini del Sacro Impero Romano, giungendo talvolta fin nelle lande siberiane e oltre le colonne d’Ercole.

Mancava soltanto l’ultima prova. Quella apparentemente più insidiosa, perché presentata con noncurante gentilezza. Talvolta è la cortese richiesta di spostare uno scatolone di polverosi volumi, talaltra di riordinare un plico caduto e con i fogli mescolati. Altre ancora, di rinunciare all’apericena mondana con gli amici del sabato sera per rivedere insieme un risvolto di copertina.

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Adso ha richiamato oggi. Dispiaciuto di non essersi potuto fermare l’altra sera. Ha pensato che, al termine del corso di specializzazione triennale, del modesto costo di diecimila euro l’anno, che gli hanno offerto altrove, i custodi degli scriptorium faranno la coda per assumerlo e aprirgli i recessi segreti delle loro arcane biblioteche.

Il rinoceronte non ha battuto ciglio.

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Le quarte di copertina, un atto di amore verso i libri

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“Il mio massimo desiderio è lavorare nel mondo dell’editoria. Sarei disposto a fare tutto per realizzare il mio sogno, anche iniziare dai lavori più umili. Ad esempio, scrivere le quarte di copertina.”

Queste entusiaste parole giunsero sulla mia scrivania alcuni anni or sono. In fondo, perché stupirsi di tanta ingenua passione? La scrittura dei risvolti è un atto redazionale oscuro, l’espressione più anonima del lavoro editoriale. La fama spetta agli autori, la gloria, talvolta, ai traduttori, un’umile citazione persino agli stampatori. Nulla è dovuto al coro che silenziosamente trasforma uno scritto in un oggetto palpabile, sfogliabile, amabile. Non certo agli operai della cartiera che hanno curato il foglio bianco o avoriato su cui si depositerà l’inchiostro, o a quelli della legatoria che trasformeranno i grandi fogli distesi in una forma armonica, impeccabile. Eppure il libro, come oggetto, come feticcio, è frutto del loro lavoro, come dell’attenzione e dell’impegno dei correttori di bozze o dei promotori e dei magazzinieri che lo presentano, lo spostano, lo inscatolano.

Esiste una figura, ancora, che trasformerà la massa informe di carta e inchiostro in un libro, in un oggetto del desiderio e della passione. È colui che lo serve al lettore, ne tenta gli occhi e l’anima, ne cattura lo sguardo e, beffardo o romantico, lo avvolge nelle spire che porteranno le pagine dallo scaffale al comodino.

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Egli ama perdutamente il libro. Lo ha corteggiato, mentre nasceva; lo ha cresciuto infante e accompagnato al mondo. Lo ha vezzeggiato e odiato, meditato e masticato. Perché in poche righe dovrà sancirne la vita o la morte, la fama o l’oblio. Consegnarlo alla storia come un classico o un successo effimero, classificarlo come oggetto da treno o da libreria, da ostentare o celare. La quarta di copertina è un atto d’amore, una rosa depositata in silenzio sulla porta dell’amata, un bacio lanciato nell’aria.

Il libro si ritrae, fugge da questo amore petulante e invadente, come Dafne di fronte ad Apollo. È un atto d’amore violento, che pretende di racchiudere in poche frase l’essenza, l’anima di un’opera. È un atto di amore totale eterno, proprio perché anonimo. Per questo, nessuna quarta di copertina potrà mai essere firmata.

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Deliri imperfetti

1. Ci sono dei giorni in cui l’attività autoconsolatoria del redattore ordinario si consuma nel voyeurismo telematico. Subito, voialtri mal pensanti state mal pensando. Come dicono i dodo dell’Era Glaciale (che non è un libro, ma un film): ”Sciagura a voi!”. Il fatto è che questo mestieraccio riserva talvolta delle grandi soddisfazioni. Mettiamo che uno soffra di insonnia e alle quattro di notte stia leggendo un manoscritto seduto in un luogo non citabile… secondo voi, mentre viene folgorato da una correzione urgente, cosa dovrebbe fare? Anni or sono, quando ero ancora un giovane entusiasta, telefonai alle due della notte a casa di un autore, per comunicargli il mio apprezzamento. Con il trascorrere degli anni ho moderato gli entusiasmi e riesco a trattenermi. Questa mattina, gli appunti infilati nel manoscritto erano di carta leggera e a fiorellini. Un poco impresentabili.

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2. Quale più grande e appagante realizzazione, per una persona che ama i libri e la cultura, del vivere in mezzo a scaffali ricolmi di pagine scritte e potersi guadagnare il pane vendendo queste perle di saggezza alle persone che entrano nel negozio? Ah, i librai, questi esseri benedetti da Buddha e anche da Odifreddi, che possono elargire tomi come se fossero ostie consacrate a fedeli rispettosi e timorosi. Una casta sacerdotale, in fondo, fra l’altro in estinzione. Due blog eccezionali, questa mattina, ci hanno fatto comprendere che nulla è il sacrificio di intrattenersi con gli scrittori rispetto al sublime piacere estetico del rapporto diretto con i lettori.

Ecco una testimonianza di Stefano Amato, autore del blog l’Apprendista Libraio:

Se ti parlo un po’ del mio fidanzato — ti racconto la sua vita, come ci siamo conosciuti, qual è il suo colore preferito eccetera — tu poi sapresti consigliarmi un romanzo da regalargli?

Dialoghi surreali ce li riporta invece Marino Buzzi, nelle sue splendide Cronache dalla libreria:

“Buongiorno vorrei il libro scritto da Manuela Arcuri.”
“Signora non mi risulta che Manuela Arcuri abbia scritto un libro. Non ancora almeno.”
“Ma come no! Lo pubblicizza in TV.”
“Sì, signora, ma non è suo. Lei lo pubblicizza e basta.”
“Ma cosa dice? L’ho sentito io con le mie orecchie che lo ha scritto lei. Ma è sicuro di essere un libraio?”
Signora ci sono giorni in cui non sono neanche sicuro di essere un essere umano, figuriamoci se sono sicuro di essere un libraio.

Forte di Fenestrelle

 

3. Sono un sadico. Lo ammetto. Questa mattina, ancora una volta, ho manipolato strumentalmente le “Postille al Nome della rosa” per indurre uno scrittore a compiere un pellegrinaggio. Perché se vuoi descrivere come un personaggio ha trascorso gli ultimi anni di prigionia nella fortezza di Fenestrelle, mica puoi fartelo raccontare dalle cartoline. Devi salire faticosamente, magari in una giornata gelida, i sentieri interni alla struttura monumentale, e contare i passi, ascoltare il fiato pesante, il gocciolio dei sotterranei, il gelo che ti entra nella schiena. Sarà sicuramente un ottimo lavoro, per ora è un buon racconto, ma il redattore ordinario non si accontenta di un buon racconto. Vuole un romanzo da pubblicare. E lo avrà, a costo di rinchiudere di nascosto lo scrittore nelle segrete del forte…

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Il lunedì del redattore ordinario

L’ondata di perentorie ingiunzioni letterarie del lunedì mattina è tale da scoraggiare anche il più entusiasta amante dei libri.

«Cara scrittrice, che “Le invio i miei lavori, in caso la proposta potrebbe (sic!) suscitare in lei interesse”, devo comunicarle che se la nostra casa editrice non si occuperebbe di saggistica, magari poteresse anche prendere in considerazione i suoi romanzi fantasy…»

«Caro scrittore, che “la vostra lettera specifica che il vostro impegno con la narrativa è limitatissimo, che il mio manoscritto richiede un ampio lavoro di revisione e che sarebbe opportuno risentirci, eventualmente, all’inizio dell’anno 2010. Mi sia consentito porvi le domande che seguono: se il vostro impegno con la narrativa è limitato , non credete che sarebbe stato più accettabile da parte vostra comunicarmi a priori la linea di interessi e di produzione evitandomi di spendere del denaro per la spedizione del manoscritto? Se, a parer vostro, il mio manoscritto richiederebbe un ampio lavoro di revisione, vuol significare che l’avete già letto?”

«Ebbene sì, caro scrittore, il nostro impegno con la narrativa è limitato. Limitato ai lavori pubblicabili. Lei ci ha chiesto di leggere il suo manoscritto, cosa che abbiamo fatto, non senza un certo disagio. E come avremmo potuto leggerlo se non ce lo avesse inviato? Lo abbiamo letto e le abbiamo detto che richiederebbe un ampio lavoro di revisione. Per caso l’ha revisionato? Una bella revisione profonda, partendo dalla prima riga fino all’ultima…
Nel caso non abbia “passato la revisione” i casi sono due: potrebbe rottamarlo, come si fa con le automobili, oppure provare a ripassare nel 2020…»

 

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I pizzini redazionali

Quello che segue è il verbale di interrogatorio di un redattore pentito, rilasciato durante una confessione poche ore prima che fosse schiacchiato dal crollo degli scaffali del magazzino della casa editrice. Lo riportiamo integralmente, così come pervenuto.

 

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La “cosa” editrice è ancora, per fortuna, oggetto immune dal cancro della democrazia e del diritto. Neppure le più decadenti redazioni progressiste sono venute meno ai sani principi dell’onorata società di cui Lui, il direttore editoriale, incarna la salda, perenne e tentacolare potenza.

Non occorre che si conosca il suo nome. Tantomeno che lo conoscano gli autori. Pochi “picciotti” fidati comunicano gli affari in corso. Noi fedeli redattori, naturalmente lo conosciamo, ma non saremmo mai così folli o infami da rivelarlo ai lettori o peggio agli aspiranti autori. Non serve la minaccia di una fossa di calce viva. Essere inviati alle fiere è una punizione sufficiente. Già questo accennare alla Sua esistenza è una sfida, e le dita tremano mentre scriviano queste righe irriverenti.

Un pizzino è sufficiente a sancire la pubblicazione di quell’autore e spegnere le speranze di un fetuso che già si illudeva di poter unire il proprio nome al marchio della Famiglia. Uccidere un esordiente non è che un distratto gesto della mano, per il nostro Padrino. Spegnere uno scrittore che si credeva affermato, inviando al macero le sue opere ancora in magazzino, uno sghignazzo coperto dalla colata di cemento sulle ambizioni di un ominicchio della penna.

I direttori editoriali si parlano, talvolta, e in salette riservate di ristoranti si spartiscono le zone di influenza, vendendosi scrittori come partite di eroina. E che sono, gli scrittori, se non pedine? D’altra parte, come è noto, i direttori editoriali sono spesso parenti di politici, e nell’intreccio con la politica nutrono il loro potere. Di taluni si mormora che siano politici essi stessi, o che lo siano stati. Giornalisti d’assalto hanno sostenuto, senza mai averne le prove, che in riunioni segrete possano segnare i destini culturali di una nazione, condizionare il voto delle giurie dei premi letterari, persino inventare scrittori inesistenti per veicolare messaggi cifrati ai posteri.

Studiosi di storia della letteratura sospettano che, in taluni casi, certi direttori editoriali, negli Anni Quaranta e Cinquanta, abbiano acquisito i diritti di opere al solo scopo di impedirne di fatto la pubblicazione o ridurne l’impatto con tirature simboliche. In altri casi, nello scontro con il Padrino di turno, grandi scrittori sono stati costretti al suicidio, pur di salvare le proprie opere dal macero e dall’oblio.

I direttori editoriali non sono riconoscibili. Si mescolano alla gente comune per nascondersi. Vestono come persone del popolo, non di rado vagano a piedi per non incappare nei posti di blocco. Vivono in case diroccate, lontane dai centri cittadini e soprattutto dai caffè letterari. Alle presentazioni e ai vernissage si siedono in disparte e talvolta si addormentano.
Si dice che taluni scrittori, mentre vagavano nei corridoi della casa editrice, lo abbiano incontrato e scambiato per l’uomo delle pulizie. Altri hanno avuto di fronte un Ommo de Panza, mentre stringevano le mani agli ammiratori e firmavano autografi sul loro primo romanzo autopubblicato, e invece di sporgergli il nuovo manoscritto hanno lanciato qualche monetina, pensandolo un mendicante.

La reazione dei cittadini e degli scrittori liberi al potere occulto dei Mammasantissima è stata possibile soltanto con l’avvento delle nuove tecnologie. La nascita di Internet ha scompaginato le vecchie mappe del potere mafioso, aprendo le porte alla democrazia della pubblicazione. Blog, riviste telematiche, webzine, sono stati gli strumenti della pacifica e determinata fiaccolata culturale che, a partire dagli anni Novanta, ha sgretolato il muro omertoso del potere dei direttori editoriali, giungendo in taluni casi persino a rendere noto il loro nome, costringendoli ad affrontare il giudizio degli esordienti in maxi processi pubblici.
E tuttavia, quell’infame di Tomasi di Lampedusa, che pure avrebbe dovuto essere grato per essere stato pubblicato,  ha riportato a tradimento in un suo libriccino una frase carpita origliando dietro la porta di un direttore editoriale.“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!”

Non è noto quando la strategia della Nuova Casa Editrice Organizzata sia stata elaborata, ma i risultati si sono visti negli ultimi cinque anni, di sicuro con l’appoggio delle famiglie d’oltre oceano. L’hanno chiamata “democrazia culturale” e significa che tutti possono scrivere un libro, tutti possono pubblicarlo e tutti possono andare in televisione a presentarlo. Da Detroit a Chicago, da Leningrado ai sobborghi di Shanghai, passando per Casal Di Principe, la parola d’ordine è “lasciate che i pupi si autopubblichino“. E i pupi si autopubblicano su Lulu, si autostampano, si autocomprano e persino si autopresentano sul Canale 93218 di Schaitivvì.

“State tranquilli – si racconta che abbia biascicato il Padrino di una casa editrice di Bagheria all’inviato di una casa editrice della Yakuza, in visita internazionale, mentre si soffiava il naso con l’ultimo romanzo ancora imbrattato di sangue dell’autore – fateli pubblicare come gli pare. Scrivono e presentano, i quaqquaraqquaà. Tanto, nessuno li leggerà.“

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La libidine di potere del borioso analfabeta

CoverLuglioAgosto2010

 

Lo è per definizione. Peggio dei critici d’arte e di quelli letterari, abilissimi nell’evidenziare limiti e difetti delle opere altrui quanto incapaci di produrre un quadro o un romanzo. Naturalmente parliamo della figura del redattore o, come si dice oggi con un anglicismo oltretutto errato rispetto alla realtà nostrana, l’editor.

Un personaggio borioso per lo più, convinto di aver letto tutto ciò che valeva la pena di leggere, e ciononostante analfabeta, perché notoriamente non in grado di cogliere gli elementi di valore e novità dei lavori che gli vengono affidati.
Il borioso analfabeta è, purtroppo, l’inevitabile strettoia che lo scrittore deve affrontare nel tentativo di approdare in casa editrice. Vediamo dunque come sconfiggerlo, o perlomeno come evitare gli spuntoni rocciosi che potrebbero affondare la vostra nave e, fuor di metafora, il vostro romanzo.
Tendenzialmente, l’editor legge molto. Ha iniziato da ragazzo, con una passione smodata per la narrativa d’avventura, per poi passare ai classici. Se avete scritto un romanzo di fantascienza, mettetevi il cuore in pace, sarete misurati volenti o nolenti con la Fondazione di Isaac Asimov o la città eterna di Arthur Clarke. Peggio se volgete all’avventura, perché il metro di paragone potrebbe essere Emilio Salgari. Non parliamo dei romanzi storici, dove Alessandro Manzoni impera, appena mitigato da Umberto Eco. In ogni caso, l’editor è un vecchio topo di biblioteca, ama la prosa stantìa di Italo Calvino o di Carlo Cassola, le ambientazioni provinciali di Cesare Pavese. Per un ignorante presuntuoso come l’editor, Wilbur Smith sa scrivere in inglese, Stephen King è davvero un giallista.
Qualunque sia il genere letterario dell’opera che volete fare approdare in casa editrice per la pubblicazione, evitate con cura di evidenziare quanto il vostro stile sia in contrasto con i maestri della letteratura, quelli veri ma anche quelli discutibili eppure vendutissimi. Ricordatevi che da qualche parte esiste un editor che ha deciso di pubblicare Moccia, altrove un estimatore di Baricco. Superate il vostro senso di disgusto. Potrebbe toccare proprio a voi fare i conti con la stessa persona.
L’editor ha lo stesso spessore intellettuale della celeberrima casalinga di Voghera. È del tutto incapace di cogliere le finezze linguistiche, le innovazioni sintattiche. Odia gli anacoluti come la marmellata sul brasato al barolo. Su questo punto, ci sono pochi trucchi cui fare ricorso. Grammatica e sintassi, almeno nelle prime dieci pagine, cercate davvero di rispettarle.
L’editor è superficiale. È una conseguenza diretta della boria e dell’ignoranza che lo attanagliano. Vi giocherete la sua simpatia nelle prime tre pagine. Se il telefono per disgrazia squilla mentre è a metà della prima pagina, quelle poche righe saranno tutto ciò che riuscirete a fargli leggere. Ecco la ragione vera per la quale l’incipit di un romanzo è fondamentale. L’unico scopo dell’incipit è prendere al volo l’editor, colpirlo allo stomaco, fargli balenare per un istante la speranza di aver trovato, almeno una volta nella sua frustrante e inutile carriera di mezze maniche dell’editoria “il libro”, quel libro del quale potrà raccontare ai nipotini: “ecco, l’ho scoperto io”.
L’editor, a prescindere dall’età, ha problemi di vista. Nulla lo indispettisce di più di un piego stampato in caratteri inferiori al corpo 12. Meglio un 14, con l’interlinea sufficientemente ampia. Non è un grande sacrificio. Consideratelo un atto di pietas nei confronti di un minus habens.
L’editor, infine, è conformista, maledettamente conformista. I suoi gusti di lettura, a causa dell’eccesso di fruizione della stessa, che spesso non si esaurisce all’orario di lavoro ma prosegue patologicamente a casa e persino nei fine settimana, sono purtroppo perfettamente omologati a quelli della massa dei lettori. Su questo piano, c’è ben poco da fare, se non di capire cosa potrebbe interessare il pubblico dei lettori cui vi rivolgete. Se interessa loro, potrebbe interessare lui.
L’editor è perfettamente consapevole di essere protetto dalla legge. Non potete ucciderlo. Dovrete quindi fare i conti con questo insopportabile figuro anche dopo aver passato indenni gli scogli della prima selezione. Evitate quindi di considerarvi approdati soltanto perché la vostra opera ha iniziato il cammino che potrebbe portare alla pubblicazione.  I sacrifici al vostro orgoglio, in questa seconda fase, saranno ancora superiori e meno sopportabili di quanto vi possiate aspettare.
C’è uno scoglio insidioso sul quale molte opere naufragano in modo inatteso: il titolo. Non c’è niente di più irritante per uno scrittore di vedersi contestare l’originale “Il nome del gladiolo” che sintetizzava perfettamente il suo romanzo storico di ambientazione medievale o “La metropoli e le stelle” che mirabilmente avviava il suo ciclo fantascientifico. Su questo punto l’editor è irremovibile. La sua sudditanza nei confronti delle opere già pubblicate è assoluta. Fra l’altro, in questo caso, può contare sul totale sostegno di quel caprone del direttore editoriale. Mettetevi il cuore in pace, almeno per i primi due romanzi e rinunciate all’inutile scontro: il titolo non potrete sceglierlo, al massimo suggerirlo, ma con molta timidezza.
Il baratro dell’ottusità e dell’insipienza vi si parerà improvviso all’atto di definire la copertina. L’editor è assolutamente privo di senso artistico, odia visceralmente ogni innovazione, è capace di atti violenti, fino alla tortura delle bozze già impaginate con passaggio ripetuto nel caminetto, se solo provate a contestare la linea grafica della collana nella quale verrà inserita la vostra opera. E’ assolutamente inutile dimostrargli che il logo dell’editore non deve comparire dove è sempre comparso, spiegargli che il formato dei grandi tascabili economici è un insulto a Pitagora, o che il titolo scritto in orizzontale da sinistra a destra sono sintomi di un conservatorismo patologico.
L’editor è un dinosauro, non sente ragioni. La psicosi da conservazione nella filiera del libro è epidemica, ha infettato i promotori, i distributori, persino i librai e, secondo le più recenti ricerche scientifiche, persino i lettori. Gli Oscar Mondadori sono odiosamente, insopportabilmente, ignominiosamente sempre Oscar Mondadori. Non è mai accaduto nella storia di questa casa editrice che abbia pubblicato un libro con il logo di Sellerio o le copertine della Garzanti. In questo caso, ad aggravare la situazione, l’enclave mafiosa è compatta e granitica: grafici, responsabili della promozione, persino tipografi e legatori saranno complici dell’editor nel rovinare il vostro libro.
Arrivati a questo, siete ormai consapevoli che il vostro romanzo, scritto con dedizione durante lunghe notti insonni, sconquassato nelle secche delle redazioni, cannoneggiato dall’editor, bombardato dagli addetti alla promozione, si è trasformato da splendido veliero in un relitto putrido, il cui destino sarà galleggiare amaramente per alcune settimane, magari alcuni mesi, nella risacca delle librerie, sotto gli occhi di tutti, per poi arenarsi miseramente sugli scaffali e, infine, depositarsi sul fondo melmoso delle biblioteche, dove potrà giacere per decenni, visitato di tanto in tanto da un lettore.
Nella peggiore delle ipotesi, il relitto sarà restaurato, offeso da una nuova e ancor più orripilante copertina, ricomposto come un cadavere risuscitato in una nuova edizione, sempre e odiosamente scritta in caratteri latini, con i paragrafi giustificati. Talvolta qualche saccente e irriverente editor interverrà persino sulle edizioni successive, eliminando quei refusi che voi consapevolmente avevate deciso di lasciare in un angolino, per sottolineare con una piccola imperfezione voluta l’assoluta intoccabilità della vostra opera.
Giunti a questo stadio sarete diventati scrittori, ma la fama non vi ripagherà delle offese subite. L’editor nel frattempo sarà morto di vecchiaia, ma l’odio che avrete nutrito nei suoi confronti non verrà meno. L’unica soluzione, come insegnano Salgari, Hemingway e molti altri, è uno spettacolare e sanguinolento suicidio. Agli editor delle nuove generazioni piacciono moltissimo questi epiloghi. Anche ai responsabili della promozione, ai librai e persino ai lettori. Fanno vendere un sacco di copie, e a quel punto nessuno sente il bisogno di correggere i vostri manoscritti. Persino la lista della spesa, purché autografa, sarà trattata con rispetto e magari venduta all’asta.
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Editori, beceri editori…

La posta elettronica si apre inesorabile e annuncia trionfalmente 240 nuovi messaggi in arrivo. Il tempo per leggere la posta tradizionale, separare le incombenze burocratiche dalla colonna dei manoscritti. Se va bene, ci scappa anche il caffé. Finalmente l’ondata quotidiana degli inediti è pronta. Fra allegati email e plichi, sono appena venti. Giornata tranquilla.

Il primo plico si apre come una minaccia: “allego alla presente la mia opera, diffidando il destinatario da….” Come diffidando? Mi pareva che avessimo autorizzato lo scrittore a inviarci una copia del suo romanzo. Lo leggiamo, mica ce lo mangiamo. E poi se anche lo mangiassimo, con gli stipendi da fame dei redattori, sarebbe un panino in meno da pagare a mezzogiorno. A prima vista il titolo pareva accattivante. Meglio evitare rischi e rispedire subito l’intero plico, senza estrarne altri contenuti potenzialmente dannosi. L’amministrazione è tassativa: rispedire a spese del mittente. Però, davvero un peccato…

Proviamo con l’email. “Spettabile Editore, ho scritto una silloge di poesie… Lo so che voi non pubblicate poesie, però…” Però niente. A me piacciono le poesie. Mi rileggo una volta al mese l’antologia dei giovani poeti inglesi pubblicata da Einaudi negli Struzzi, vent’anni fa. Anche Einaudi, peraltro, non pubblica poesie, premi Nobel e mostri sacri esclusi. Tantomeno la casa editrice per la quale lavoro. Provo a spiegarlo. Conosco già la risposta: “Non capite un… siete i soliti venditori di carta straccia… ” Se dipendesse da me, obbligherei tutte le persone ad acquistare un libro di poesie ogni settimana. Pare che in libreria il settore sia melaconicamente deserto. Non è colpa nostra, e neppure del libraio.

Seconda mail elettronica. Spettabile editore, ho letto che siete seri, perché avete il codice isbn e il bollino Siae. Il bollino Siae? Dove l’avrà letto? Mica vendiamo cd musicali. Ah, già. E’ un errore, riportato da Il rifugio degli esordienti. Niente di grave. Una volta anche i libri riportavano il bollino Siae. Ora ben di radom e nessun editore va a chiederlo per il solo gusto di perdere tempo. Se gli scrittori ogni tanto leggessero un libro se ne sarebbero persino accorti.

Torniamo ai plichi. Il signor Alighiero Dantini ha spedito il suo romanzo. Scrive poco quando non racconta: nome e cognome, una liberatoria legale in cui assicura che il testo è proprio suo, cinque righe di curriculum, dieci righe di sinossi (ma perché non lo chiama semplicemente presentazione?). Magnifica cosa: una copia del romanzo, rilegata alla buona, ma senza fogli sparsi, persino dotata di copertina in cartoncino bianco. Un bel giallo, si capisce subito, anche perché l’ha scritto chiaramente. Proposta di titolo accattivante, forse un po’ lunga, ma non importa, testo ben impaginato, errori pochi. Finisce nel piccolo gruppo dei “librichemiripromettodileggereprimaopoi“. Dopo due ore, restera’ solo in quel mucchietto, mentre gli altri plichi si accumuleranno nello scatolone della raccolta carta.

Si profila una luminosa carriera per questo orfanello.

Più che luminosa: nella pausa di pranzo decido di portarlo fuori con me e di dare una prima scorsa. Davvero niente male. Peccato quel verbo volgare: lo usasse in senso proprio, cioè per “spazzare i pavimenti”, non ci sarebbero problemi. Un segno rosso e un’annotazione. Ci penserà un altro redattore, a convincere l’autore della necessità di correggere, se vuole che l’opera sia pubblicata da noi.

Secondo caffé della giornata ed ecco spuntare l’amministratore delegato. “Cosa leggi?” Finale a sorpresa: il manoscritto finisce nella sua borsa. Se lo leggerà per puro piacere, questa sera. Questo libro sembra davvero nato sotto una buona stella. Così buona che appena rientrato mi metto subito alla tastiera, per annunciare all’esordiente Alighiero Dantini l’interesse ad approfondire la lettura e comunicare due piccole perplessità, sulle quali avremo modo di colloquiare in futuro. Meglio trattarlo bene, il Dantini, perché mi sa che la prossima settimana l’amministratore delegato poserà il manoscritto sulla mia scrivania con una noterella in rosso: pubblicabile.

Poche ore e dalla casella email si affaccia un messaggio: “Vedo che siete stati rapidi nel capire che il mio capolavoro deve essere pubblicato. Come vi permettete di pensare anche solo lontanamente accettare proposte di correzioni, inutili larve redazionali?”

“Veramente, signor Dantini, era solo una proposta. Siamo ancora lontani dalla decisione di pubblicare. Quanto alle correzioni, pur rispettando il suo estro creativo, permetterà all’editore, che paga di tasca sua e pagherà a lei i diritti d’autore, di esprimere un’opinione?”

Risposta. Se finora abbiamo scherzato, esagerando un poco, ora vi confesso la verità: questo è un resoconto vero. Non è un racconto di fantasia. E quella che segue, parola per parola, senza i riferimenti personali, nel rispetto della riservatezza personale, è la risposta del signor Alighiero Dantini. Ottimo scrittore; ma scrittore, almeno per questa volta, mancato: “Come sospettavo a Lei della qualità narrativa non importa un fico secco. Lei guarda le idee politiche espresse in un testo (…) e questo è un fatto che mi ricorda il Tribunale dell’Inquisizione (…) Getti pure nella spazzatura il mio romanzo: dal suo punto di vista non merita altro.”

Peccato. Davvero peccato per il signor Dantini. Peccato perché questa mattina, entrando in redazione, c’era un manoscritto in un angolo. E sopra, in rosso, un appunto dalla calligrafia inconfondibile.

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Il diavolo nella mia libreria

Il diavolo mi guarda beffardo, con il viso di un ironico Alfredo Panzini. A giorni uscirà, nella collana “I faggi” di Marcovalerio Edizioni, “Il diavolo nella mia libreria“. Un testo cosiddetto minore del grande romanziere romagnolo, più noto al grande pubblico per “Il padrone sono me”. Un piccolo classico, che ho curato con passione particolare, dedicandogli fuori orario ben più dei tredici secondi netti che l’editore prevede siano il tempo massimo per spedire di corsa in tipografia quei libri che servono appunto a tenere impegnare le macchine da stampa fra un best seller e l’altro.
Sconvolti dalla notizia? Ormai, se seguite questo sito, lo sapete che il redattore ordinario è un vecchio cinico e astioso. Anche con i classici della letteratura.
Per Alfredo Panzini, tuttavia, come per pochi altri, questo abitante delle grotte nutre una particolare predilezione. Forse perché anche Panzini era a modo suo un simpatico cinico, un uomo capace di slanci profondi nella sua opera, meno nota, di autore per la scuola, ma capace di pennellate all’acido nei confronti della “democrazia” degli Anni Venti, quella che traghettò l’Italia dallo slancio unitario alla palude giolittiana, tanto simile almeno per quantità e abnormità degli scandali alla contemporanea, e da questa al fascismo, cui Panzini ebbe la colpa di guardare con insufficiente antipatia, ragione dell’ostracismo perpetrato alla sua opera.
Bando alle divagazioni letterarie, torniamo al diavolo, anzi alla libreria, o meglio ancora ai classici.
Un classico è, per definizione, un libro vecchio, che si legge, anzi si deve leggere, per affrontare un esame o per completare la propria cultura. Libro profondamente diverso, almeno nella tradizione editoriale italiana, dal nuovo successo dell’ultima scoperta letteraria dell’editore, destinato invece a rendere piacevoli le serate e le giornate festive dei lettori normali, quelli che leggono per il puro piacere di leggere.
Sul piano delle scelte di produzione, un nuovo titolo è, almeno idealmente, un libro da vetrina. Un classico è, inesorabilmente, un tomo da scaffale.
Per distinguerli basterebbe guardare le copertine. Quelle dei nuovi titoli devono essere sempre brillanti e vivaci, quelle dei classici togate e polverose, sapere di antico. Plastica contro legno, per intenderci.
La distinzione nella veste esterna non è tuttavia sufficiente. Un classico deve per forza, altrimenti non è un classico, essere corredato di un’ampia introduzione critica, possibilmente dal taglio accademico, preferibilmente anche molto noiosa, in cui si descrive anzitutto la biografia dettagliata dell’autore, i suoi rapporti con altri autori celebri suoi contemporanei, insistendo eventualmente sul singolo occasionale incontro, in una taverna, con altri autori storici da antologia scolastica. Che Panzini, per tornare al nostro, abbia seguito le lezioni di Carducci e abbia incontrato una volta Pascoli, sono notizie fondamentali. Anche che abbia avuto quattro figli e uno di essi sia morto in giovane età. Ne avesse avuti soltanto due, guai, non potremmo inserire il suo testo fra i classici. Il suo pensiero politico è meno importante. Meglio lasciarlo ai margini, perché si correrebbe il rischio di etichettare “Il padrone sono me” come un inno al fascismo venturo.
Immaginate l’ultimo successo di Federico Moccia preceduto da una storia della sua vita, un ampio paragrafo dedicato al suo occasionale incontro, due anni or sono, mentre prendeva il caffé in autogrill, con Giorgio Faletti, e relativo capitolo sulle reciproche influenze letterarie fra i due scrittori. Corredate il testo di un robusto impianto di note a piè di pagina, per spiegare agli studenti dove si trova Ponte Milvio, da chi fu costruito, un’altra noterella per farci sapere chi è l’inventore del lucchetto, magari una bella scheda didattica a fine capitolo con domande tipo: “Su quale fiume è stato costruito il ponte Milvio? A – Arno, B – Ofanto, C – Tevere”
Non iniziate a sogghignare pensando alle note a piè di pagina per “Cinquanta sfumature di grigio”: restate seri e attenti, perché la questione non è  marginale. Se qualcuno continua a ridacchiare dovrà leggersi tutta l’opera di Pitigrilli per punizione.
Se volete conoscere la biografia di Federico Moccia, non avete che da digitare il suo nome e cognome sul motore di ricerca e, d’incanto, Wikipedia vi risponderà con tutti i dettagli possibili. Se volete conoscere la biografia di Alfredo Panzini, non avete che da scrivere Alfredo Panzini e, guarda che incredibile scoperta, oltre a Wikipedia, troverete persino un bellissimo portale a lui interamente dedicato, dove oltre alla biografia dettagliatissima troverete la bibliografia completa, passi delle sue opere, ampie citazioni, schede di lettura e approfondimenti.
Eppure, per pubblicare un libro di Federico Moccia, a nessuno è venuto in mente fosse necessario precedere la narrazione con trenta pagine di analisi critica. Neanche per pubblicare i romanzi di Umberto Eco, che nell’ateneo bolognese è di casa e la biografia ragionata poteva scriversela anche da solo. A dire il vero, quando “Il padrone sono me” fu pubblicato, non venne in mente neanche allora fosse necessario raccontare tutti i fatti dall’autore o chiedere un parere retribuito a un qualsiasi professore universitario bolognese.
Invece, per leggere oggi Alfredo Panzini, pare sia obbligatorio sciropparsi la prefazione scritta da un tesista e firmata da un cattedratico. Guai se osate godervi “Il diavolo nella mia libreria” se al liceo non avete studiato “Il padrone sono me”. Men che meno, ardire portarselo in spiaggia. Panzini si deve rigorosamente leggere seduti composti alla scrivania, con un vocabolario alla propria sinistra e un quaderno a righe sulla destra.Lei, sì dico a lei, studente della quarta fila a destra, la smetta di sorseggiare quella bibita. Sta leggendo Alfredo Panzini, diamine, mica un Umberto Eco qualunque. Stia composto, schiena dritta e risponda: in che provincia si trova Senigallia, città natale del nostro?
Ora, il dilemma mi attanaglia. Per sbaglio, alcune settimane or sono, il centralino mi ha passato la telefonata di un lettore. Era un poco indispettito perché la meritoria impresa di aver ripubblicato i Cento Anni di Giuseppe Rovani in edizione tascabile economica, salvando dall’oblio un’opera a mio parere fondamentale dell’Ottocento, da decenni introvabile sugli scaffali a meno di dissanguarsi con la monumentale edizione critica Einaudi, era stata suo dire rovinata dalla scelta di pubblicarla sic et simpliciter. Neanche una decina di pagine scopiazzate da un’enciclopedia scolastica per raccontare la vita di Giuseppe Rovani. E neppure una spruzzata di noterelle qua e là, di quelle da testo di liceo dove ci spiegano ad esempio che il ramo del Lago di Como non va inteso in senso letterale, e che intanto bisogna girare per Lecco e poi è inutile prendere il binocolo per vedere se qualcosa galleggia sull’acqua, oppure che il libro galeotto di Paolo e Francesca non era stato preso in prestito nella biblioteca di Poggioreale. Il lettore era davvero deluso, le voleva quelle noterelle. Perché, mi ha spiegato con aria paterna al telefono, i Cento Anni sono un classico e pertanto le note ci vogliono. Se no, non è un classico e gli tocca leggerlo per il puro piacere di leggerlo, soltanto perché è un bellissimo libro, avvincente per l’intreccio e per la ricostruzione storica.
La notte incombe ma il dilemma è irrisolto. Lascio la domanda ai lettori di questo sito. Volete leggere “Il diavolo nella mia libreria” di Alfredo Panzini per il solo gusto di leggere un bel libro, cogliendo la critica sociale sottesa al contrasto fra i libri che l’autore racconta di aver ereditato dalla vecchia zia, resti dell’epoca della Restaurazione, e alcuni persino antecenti alla Rivoluzione Francese, contrapposti all’epoca in cui l’autore scrive, a cavallo fra gli Anni Dieci e gli Anni Venti del Novecento, sconquassati dai rivolgimenti sociali della Grande Guerra e dai moti socialisti che trasformeranno le campagne romagnole prima dell’avvento del Fascismo (quelle mirabilmente descritte ne “Il padrone sono me”), oppure preferite che vi racconti prima la vita di Alfredo Panzini, la sua infanzia a Rimini, gli studi a Venezia, la sua felice vita di professore liceale e di autore di antologie scolastiche. Sapere che morì a Roma e fu sepolto a Santarcangelo è per voi importante? Ditemelo per favore. A me, scrivere quelle dieci paginette, non costa quasi nessuna fatica. A voi, leggerle?
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Diario postumo della Fiera del Libro di Torino 2006

Mercoledì 14 maggio 2006

Ottima notizia in vista. Anche il redattore oscuro, cioé il sottoscritto, avrà l’onore di recarsi in Fiera. La notizia mi viene trasmessa alla vigilia del grande evento. Mi preparo a svolgere il ruolo culturale che mi è stato finalmente riconosciuto.

Giovedì 15 maggio 2006

Non mi avevano spiegato bene, anzi, come mi è stato detto, non avevo capito io. In Fiera mi ci hanno portato, sì, ma a spostare gli scatoloni di libri. Loro la chiamano logistica. A me sembra che rispetto al solito facchinaggio quotidiano non ci siano differenze sostanziali. In compenso lo stand è davvero molto bello. Dimensione loculo, ma almeno non è nero come quello di Edizioni di Ar, da cui ci guardano arcigni. Con la scusa di controllare la concorrenza fuggo dai saggi gnostici e mi barcameno fra lo stand di Stampa Alternativa e quello di Scipioni. Ho le ideologie confuse, lo so, ma che ci volete fare, sempre meglio dei colleghi che continuano a sostenere di lavorare per Einaudi quando il loro datore di lavoro si chiama Mondadori.

Ebbene sì, lo confesso. Odio la Fiera del Libro di Torino. La odio profondamente. Non è colpa di nessuno, ci mancherebbe altro. E’ che se per voi la Fiera è una festa e per gli autori una passerella, per il redattore del sottoscala corrisponde alla discesa negli inferi.

Il redattore del sottoscala non fa passerella in Fiera. Al massimo ha l’onore di poter partecipare al montaggio e allo smistamento dei pacchi in partenza. La sua vigilia è di notti insonni, per terminare schede, cartelline stampa, locandine, offerte, selezionare foto, ma anche occuparsi dei problemi logistici degli autori, anzi degli Autori, che piombano a Torino pensando di essere a Rimini. E invece a Rimini non sono. Gli alberghi costano come a Dubai ma sembrano quelli di Islamabad…

Avete provato a pranzare in Fiera? Negli autogrill d’autostrada, quelli veri, almeno c’è il gusto del viaggio. Uno ingoia pane scongelato con salame scongelato, bevendo aranciata scongelata e caffé scongelato, ma almeno guarda fuori e pensa a Easy Rider. Invece al Lingotto uno guarda fuori e vede passare Bruno Gambarotta che, beato lui, è andato a mangiare il bollito. Come minimo viene voglia di lanciargli addosso una copia del Devoto Oli…

Venerdì 16 maggio 2006

Il redattore oscuro è per definizione tonto. C’è tuttavia una cosa che non capisco: se si escludessero dalla Fiera le istituzioni pubbliche, i Ministeri, le Regioni, gli autogrill, i venditori di quadri di velluto (credetemi, ci sono anche loro) e gli editori di APS (se non avete letto Il pendolo di Foucault e non sapete chi sono gli APS non siete degni di leggermi), in questa Fiera chi resterebbe? Il PDCS, presidente del comitato scientifico, altrimenti noto in casa editrice con un epiteto non ripetibile, sostiene l’abolizione degli scrittori e dei librai come soluzione salvifica per la cultura. Per i prossimi quattrocento anni – sostiene il PDCS – non abbiamo bisogno di nuovi libri. Bastano quelli che sono già stati scritti. A patto che qualcuno sia disposto a leggere.

Sabato 17 maggio 2006

Il mangialibro non sarà una grande iniziativa culturale, ma almeno il pranzo per oggi lo rimedio. Vissani, di fronte ai libri commestibili ha storto il naso. Poi si è divorato quattro razioni di cassata siciliana. Per salvarsi dall’abbiocco biblico, anzi bibliofilo, non resta che passeggiare fino allo stand della Regione Campania. In fondo negli ultimi mesi abbiamo pubblicato più autori napoletani noi che il grande Guida… Il caffettuccio rinfranca lo spirito e risveglia il cervello. In sala stampa evidentemente non mangiano cassata e non prendono caffé. In compenso bevono tutte le panzane che la Fiera propina: il salone del libro di Kuala Lumpur sta andando davvero a gonfie vele. Ma perché i giornalisti sono venuti a Torino per farne il resoconto?

Domenica 18 maggio 2006

Una signora protesta perché una traduzione non è firmata. Il libro griffato potrebbe diventare una tendenza. Devo proporla alle alte sfere, chissà che non mi riconoscano finalmente, se non l’aumento, almeno il diritto a sedermi mezz’ora sullo sgabello.
Arrivano i romanzieri. Me li immaginavo diversi, confesso. Io non firmo le traduzioni e loro, gli Autori, firmano invece le copie vendute. Quasi quasi cerco la signora di questa mattina e le offro il mio insulso autografo. Magari le scrivo anche il mio numero di telefono…

Lunedì 19 maggio 2006

Lento e inesorabile declino. Il primo corridoio del padiglione 2, che dalla Regione Piemonte conduce allo spazio autori A, sarebbe una landa desolata se non fosse per Lastrego e Testa e per noi. Loro offrono sogni a disegni animati. Noi filosofi impazziti, che parlano di ermeneutica come se fosse una cosa seria. Lucio Saviani ci prende tutti di sorpresa: durante il suo intervento non solo gli spettatori restano svegli, ma prendono addirittura appunti. Scopriremo il giorno dopo che è stato merito di tre boccali di birra piazzati sotto il suo naso al momento giusto. Mentre fuggo dall’ermeneutica vado a sbattere contro Younis Tawfik e gli rifilo una copia di Sheol. Non credo che il suo punto di vista sulla guerra sia lo stesso dei professori pacifisti americani. Me lo fa educatamente osservare con il suo sguardo pacato. Senza parole inutili. Non mi resta che rifugiarmi nel minuscolo stand del Premio Cenacolo. Regalano premi agli editori anziché agli autori, ma visto che di editori veri in Fiera ce ne sono pochi, la splendida e solitaria studentessa che occupa lo stand mi accoglie come se fossi Richard Gere. Le regalo un’idea per una collana. Editoriale naturalmente. Quelle di perle sono assolutamente fuori dalla mia portata.

Martedì 20 maggio 2006

Ho avuto l’onore di occuparmi ancora di logistica. Poche scatole, ad essere onesti. Per fortuna non lavoro per Simonelli, nostro dirimpettaio. Si ostina a voler vendere ebook e printing on demand, con il suo 365giorniinfiera, ma tutti i libri che aveva portato a Torino se li è  riportati a Milano. Come la maggior parte dei vicini di stand. L’ottimismo dei capi è inversamente proporzionale ai resi e direttamente proporzionale al numero di editori stranieri con i quali hanno fatto affari. Se va avanti di questo passo, oltre alla pasta con il sugo, forse dalla prossima settimana a pranzo potrò permettermi anche un secondo. Gambarotta sei avvertito: l’anno prossimo il bollito lo mangio anch’io…

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Bisognerebbe far capire agli studenti…

«Bisognerebbe far capire agli studenti che il valore legale della laurea va abolito. Bisogna spiegare agli studenti che meritocrazia non è una brutta parola… Visto che la politica e i ministri non ci riescono – e anche in questo caso destra e sinistra per me fa poca differenza – a reagire al loro dilettantismo devono essere gli uomini di scienza».

Giulio Giorello è il filosofo della scienza più noto d’Italia, oltre che un intellettuale dotato di vis polemica notevole. Ma i suoi interessi non si limitano solo all’ambito della matematica o della storia del pensiero scientifico. Nel 1981 ha curato l’edizione italiana di Sulla libertà di John Stuart Mill, avviando – in certo senso – una rinascita degli studi sul pensatore inglese. Conosce bene anche l’editoria colta. Dirige, infatti, per l’editore Raffaello Cortina, la collana «Scienza e idee».

Il Giornale lo ha intervistato l’11 novembre 2008 nell’ambito del piccolo «Processo alla cultura» che ha istruito a partire dall’articolo di Luca Doninelli su cui, il 10 novembre 2008, ha detto la sua anche Massimo Cacciari.

Interventi che molti non condivideranno, sicuramente, ma che riteniamo puntuali e significativi di una presa di consapevolezza dello stato in cui versa la cultura italiana. E la cultura è palestra del futuro politico, sociale ed economico di un Paese.

Qualche passo, tratto dagli articoli citati, su cui vi invitiamo a discutere, se lo volete.

Luca Doninelli«La nostra domanda investe, piuttosto, la cultura italiana, sulla quale, in grandissima parte, si potrebbero ripetere – spesso rincarando le dosi – le osservazioni mosse da Morrison e dallo stesso Compagnon nei riguardi di quella francese, e che si riassumono nel suo scarso peso a livello internazionale, nel suo provincialismo, nella sua mancanza di originalità. Da noi non esiste, di fatto, uno Stato Culturale come quello deprecato da Fumaroli, e la cultura, più che un affare di Stato, appare come un affare di élite, di salotti, di circoli, di cricche e, se mai, in un recente passato, di controllo ideologico a opera del fascismo prima e del partito comunista poi, che in modi solo in parte diversi hanno acquistato potere nei gangli della produzione culturale, contaminando (anche mediante il ricatto) l’esercizio della libertà intellettuale nel nostro Paese.

Sono tutte cose che sappiamo benissimo. Del resto, gli agenti patogeni della libertà intellettuale esistono e probabilmente esisteranno sempre dappertutto, e questo ha una sua logica (starei per dire giustizia) perché è nella lotta, nella tensione, nella dialettica che la libertà si afferma. Non ho mai sentito parlare, né qui, né altrove, di uomini liberi che non abbiano pagato il prezzo della loro libertà.

Quello, piuttosto, che preoccupa è la totale assenza, da noi, di un ripensamento paragonabile a quello dei nostri cugini francesi. A nessuno viene in mente di produrre un’analisi critica della nostra cultura capace di abbracciare insieme letteratura, spettacolo, beni culturali e università, considerandoli come un unico problema. Nessuno ha voglia di farsi dei nemici. Così ci accontentiamo di riempire lo Stivale di premi e festival e ci illudiamo che la cultura sia in buona salute. Per i ripensamenti è sufficiente Porta a porta, o qualche altro talk show. L’intellettuale fa un mestiere mal pagato, ha scarsa stima di sé (un buon gelataio guadagna più della maggior parte degli scrittori), ed è facile che finisca per rincorrere un posticino al sole a caccia di gettoni di presenza, girando per convegni e festival, tenendo rubrichette su riviste o, se va bene, aprendosi una strada nel cinema.»

Massimo Cacciari«È difficile che la saggistica vada bene. Noi abbiamo un’editoria umanistica invidiabile. Le faccio un esempio: pensi al livello qualitativo della collana filosofica di Bompiani curata da Giovanni Reale. Testi di valore, curatissimi e a un prezzo più che accessibile. All’estero per leggere un classico a volte si devono sborsare centinaia di euro».

«Da anni dico che il valore legale dei titoli di studio va abbandonato. Abolirlo crea competitività fra gli atenei e aiuta ad attrarre gli investimenti verso i poli d’eccellenza… Certo, poi bisogna mantenere tutta una serie di controlli sul livello dell’insegnamento, sul che cosa si insegna. Serve un quadro normativo chiaro, non si può permettere che qualcuno vada in cattedra a raccontare La vispa Teresa… Ma in ogni caso, una volta mantenute norme e regole, l’eliminazione del valore legale si trasformerebbe in un’importante molla di rilancio. Il resto sono discussioni al livello del grembiulino…».

E voi, cosa ne pensate?