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Del romanzo ai tempi della crisi

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Con il trascorrere degli anni, immerso nella lettura dei manoscritti che giungono a catinelle in redazione, ho assistito alla vertiginosa crescita di una narrativa in bilico fra introspezione minimalista e attualità quotidianista. Lungi ogni paragone, quando parlo di introspezione minimalista, ai grandi percorsi di Italo Svevo, quanto piuttosto una passione smodata per un mondo narrativo placentale, ridotto all’io superficiale e ben attento a non indulgere ad approfondimenti, da un lato, quanto non confrontabile con l’attenzione al vissuto dei grandi romanzieri del Dopoguerra, si vogliano citare Pavese o Vittorini, Silone o Brancati, ancorati al momento storico e, in qualche modo, condannati all’epoca di cui sono testimoni. Insomma, storie che si possono ridurre ad una serie ridottissima di fabule.
Fra queste, dopo l’innovazione del romanzo storico di Eco, la ripetizione pressoché infinita di ambientazioni fantastico storiche condite di misteriosi quanto elementari intrighi esoterici.
Al secondo posto, le attualizzazioni della modernità moraviana, con la replica estenuante dei drammi topici della borghesia nostrana, che spaziano dalla condizione di solitudine affettiva femminile intorno alla quarta decade di vita, alla tragedia dei sacrifici di giovani privi dei mezzi di sostentamento vitali, primo fra tutti il credito di telefonia mobile, fino alle cruenti e sanguinarie battaglie per giungere in tempo utile all’ora felice dell’aperitivo urbano.
Infine, complice il successo linguistico di Camilleri, il profluvio dei cosiddetti gialli d’ambiente, dove alla parlata virtualmente in uso a Porto Empedocle si sostituisce di volta in volta quella in uso a San Damiano d’Asti, a Roccaraso o Casal di Principe.
Semplifico, naturalmente, ma come noto l’orizzonte culturale del redattore ordinario appena si innalza al di sopra delle letture ginnasiali. Eppure la semplificazione estrema corrisponde alla maggior parte delle storie che vengono proposte alle case editrici.
Fra i vari modelli ispiratori, uno certamente è invece assente. Potremmo definirlo epico contemporaneo. Se vogliamo è il modello che ha caratterizzato la narrativa italiana dell’Ottocento, si pensi a Rovani, ma anche, con una prospettiva completamente diversa, Verga o Fogazzaro. Quello che viene definito “grande respiro”, quando identifica opere di elevata qualità, oppure “polpettone” quando riferito alla produzione seriale di bassa lega.
 Ampio respiro o polpettone, l’epica ha caratterizzato la produzione di molti Premi Nobel stranieri. Anche i più leggeri romanzi di Steinbeck dipingono il ’29 dell’ovest americano, come la Macondo del sud di quel continente incarna nazioni intere nelle loro crisi devastanti.
In Italia abbiamo avuto la grande stagione della narrativa partigiana, con una coralità paragonabile, e, in tempi recenti, la narrativa di impegno politico, dove il politico è prevalso sull’impegno al punto da diventare non di rado ideologico.
Ora, nel nostro Ventinove, il redattore ordinario non ha ancora visto giungere manoscritti che parlino di uomini e topi, mentre nelle città gli uni e gli altri si contendono la perlustrazione delle immondizie, né di aureliani sconfitti, che pure nelle valli alpine collezionano disfatte devastanti quanto quelle degli eterni rivoluzionari sudamericani. Il massimo dell’epica è, come due o tre anni or sono, il racconto breve della precarietà. Romanzo a termine, a progetto, mi verrebbe da ironizzare.
Non è un invito o una polemica, ma un interrogativo senile, e come tale limitato e ottuso, sulla direzione che prenderà, o che verosimilmente non imboccherà, il romanzo italiano della seconda decade del secolo. Racconterà di vecchi che razzolano fra gli scarti alimentari dei mercati metropolitani? Di uomini e talvolta famiglie residenti in vecchi furgoni? Di uomini che si suicidarono sotto il peso dei debiti e delle imposte? Di giovani e di poliziotti che si affrontarono a muso duro per una galleria in una valle sperduta ai confini della Nazione? Se vogliamo, sono tutti temi epici, come molti altri della nostra grande depressione. O prevarrà la leggerezza insostenibile di una borghesia sconfitta?

Autore

  • Il redattore ordinario per eccellenza, è invecchiato e incartapecorito fra scartoffie e manoscritti. Miope, in tutti i sensi, cinico e distaccato. Ama i libri, ma neppure i libri ricambiano il suo affetto. Il peggior incontro che un autore possa fare quando si avventura in casa editrice. Per fortuna, non lo si incontra mai, perché da decenni vive relegato in un oscuro scantinato, dove lavora giorno e notte al lume di una lampada a petrolio, tra il gocciolio dei tubi e il fetore dei ratti.

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