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I pizzini redazionali

Quello che segue è il verbale di interrogatorio di un redattore pentito, rilasciato durante una confessione poche ore prima che fosse schiacchiato dal crollo degli scaffali del magazzino della casa editrice. Lo riportiamo integralmente, così come pervenuto.

 

padrino

 

La “cosa” editrice è ancora, per fortuna, oggetto immune dal cancro della democrazia e del diritto. Neppure le più decadenti redazioni progressiste sono venute meno ai sani principi dell’onorata società di cui Lui, il direttore editoriale, incarna la salda, perenne e tentacolare potenza.

Non occorre che si conosca il suo nome. Tantomeno che lo conoscano gli autori. Pochi “picciotti” fidati comunicano gli affari in corso. Noi fedeli redattori, naturalmente lo conosciamo, ma non saremmo mai così folli o infami da rivelarlo ai lettori o peggio agli aspiranti autori. Non serve la minaccia di una fossa di calce viva. Essere inviati alle fiere è una punizione sufficiente. Già questo accennare alla Sua esistenza è una sfida, e le dita tremano mentre scriviano queste righe irriverenti.

Un pizzino è sufficiente a sancire la pubblicazione di quell’autore e spegnere le speranze di un fetuso che già si illudeva di poter unire il proprio nome al marchio della Famiglia. Uccidere un esordiente non è che un distratto gesto della mano, per il nostro Padrino. Spegnere uno scrittore che si credeva affermato, inviando al macero le sue opere ancora in magazzino, uno sghignazzo coperto dalla colata di cemento sulle ambizioni di un ominicchio della penna.

I direttori editoriali si parlano, talvolta, e in salette riservate di ristoranti si spartiscono le zone di influenza, vendendosi scrittori come partite di eroina. E che sono, gli scrittori, se non pedine? D’altra parte, come è noto, i direttori editoriali sono spesso parenti di politici, e nell’intreccio con la politica nutrono il loro potere. Di taluni si mormora che siano politici essi stessi, o che lo siano stati. Giornalisti d’assalto hanno sostenuto, senza mai averne le prove, che in riunioni segrete possano segnare i destini culturali di una nazione, condizionare il voto delle giurie dei premi letterari, persino inventare scrittori inesistenti per veicolare messaggi cifrati ai posteri.

Studiosi di storia della letteratura sospettano che, in taluni casi, certi direttori editoriali, negli Anni Quaranta e Cinquanta, abbiano acquisito i diritti di opere al solo scopo di impedirne di fatto la pubblicazione o ridurne l’impatto con tirature simboliche. In altri casi, nello scontro con il Padrino di turno, grandi scrittori sono stati costretti al suicidio, pur di salvare le proprie opere dal macero e dall’oblio.

I direttori editoriali non sono riconoscibili. Si mescolano alla gente comune per nascondersi. Vestono come persone del popolo, non di rado vagano a piedi per non incappare nei posti di blocco. Vivono in case diroccate, lontane dai centri cittadini e soprattutto dai caffè letterari. Alle presentazioni e ai vernissage si siedono in disparte e talvolta si addormentano.
Si dice che taluni scrittori, mentre vagavano nei corridoi della casa editrice, lo abbiano incontrato e scambiato per l’uomo delle pulizie. Altri hanno avuto di fronte un Ommo de Panza, mentre stringevano le mani agli ammiratori e firmavano autografi sul loro primo romanzo autopubblicato, e invece di sporgergli il nuovo manoscritto hanno lanciato qualche monetina, pensandolo un mendicante.

La reazione dei cittadini e degli scrittori liberi al potere occulto dei Mammasantissima è stata possibile soltanto con l’avvento delle nuove tecnologie. La nascita di Internet ha scompaginato le vecchie mappe del potere mafioso, aprendo le porte alla democrazia della pubblicazione. Blog, riviste telematiche, webzine, sono stati gli strumenti della pacifica e determinata fiaccolata culturale che, a partire dagli anni Novanta, ha sgretolato il muro omertoso del potere dei direttori editoriali, giungendo in taluni casi persino a rendere noto il loro nome, costringendoli ad affrontare il giudizio degli esordienti in maxi processi pubblici.
E tuttavia, quell’infame di Tomasi di Lampedusa, che pure avrebbe dovuto essere grato per essere stato pubblicato,  ha riportato a tradimento in un suo libriccino una frase carpita origliando dietro la porta di un direttore editoriale.“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!”

Non è noto quando la strategia della Nuova Casa Editrice Organizzata sia stata elaborata, ma i risultati si sono visti negli ultimi cinque anni, di sicuro con l’appoggio delle famiglie d’oltre oceano. L’hanno chiamata “democrazia culturale” e significa che tutti possono scrivere un libro, tutti possono pubblicarlo e tutti possono andare in televisione a presentarlo. Da Detroit a Chicago, da Leningrado ai sobborghi di Shanghai, passando per Casal Di Principe, la parola d’ordine è “lasciate che i pupi si autopubblichino“. E i pupi si autopubblicano su Lulu, si autostampano, si autocomprano e persino si autopresentano sul Canale 93218 di Schaitivvì.

“State tranquilli – si racconta che abbia biascicato il Padrino di una casa editrice di Bagheria all’inviato di una casa editrice della Yakuza, in visita internazionale, mentre si soffiava il naso con l’ultimo romanzo ancora imbrattato di sangue dell’autore – fateli pubblicare come gli pare. Scrivono e presentano, i quaqquaraqquaà. Tanto, nessuno li leggerà.“