Quale è il senso, per una casa editrice cosiddetta di cultura, continuare a pubblicare libri che i lettori non sono più in grado di comprendere? Non è una domanda provocatoria e periodicamente l’interrogativo serpeggia in redazione.
Che poi a porselo sia l’unica casa editrice italiana a pubblicare regolarmente e sistematicamente libri a grandi caratteri per favorire la lettura alle persone affette da dislessia, è ancora più grave.
Da anni, i nostri autori di livello accademico conoscono la fissazione redazionale di Marcovalerio Edizioni per la semplicità e chiarezza del linguaggio. «Se un lettore acquista un testo filosofico, pedagogico o scientifico – è uno dei motti – significa che non conosce la filosofia, la pedagogia, la scienza. È quindi nel pieno diritto di ricevere un testo comprensibile a un profano, con note esplicative e dal linguaggio privo di inutili contorsioni. Se il lettore non comprende, ha il diritto di protestare. Ed è un preciso dovere del docente scrivere in modo chiaro e comprensibile.»
Una fissazione vera e propria, che talvolta fa anche storcere il naso ad autorevoli saggisti. Un impegno che ci ha portato talvolta a pubblicare due versioni del medesimo testo: una propriamente accademica, rivolta agli addetti ai lavori, e una più agevole, divulgativa potremmo dire.
Eppure, malgrado questa tenzone estenuante, alla quale abbiamo sottoposto per decenni i nostri autori (e parliamo di penne del calibro assoluto come Vittorio Mathieu, Aldo Rizza, Redi Sante Di Pol, giganti nelle rispettive materie), dobbiamo prendere atto, lustro dopo lustro [N.d.R. “lustro” è in questo contesto sostantivo desueto per indicare un periodo consecutivo di cinque anni, non aggettivo riferito allo stato di pulizia delle copertine], che la capacità di comprensione del testo scritto scende sistematicamente e logaritmicamente.
La semplificazione dei concetti, pur giunta al livello di banalità, risulta, nella comunicazione pur firmata da giornalisti, docenti universitari, scrittori noti, comunque largamente incompresa e mistificata dai loro stessi lettori. Non parliamo di cogliere figure retoriche, sfumature ironiche o litoti, né di riconoscere citazioni e contestualizzarle.
Bastino come esempi la comunicazione in Rete, nella quale un professore universitario di diritto intima agli studenti di dedicarsi al karaoke se non in accordo con i propri convincimenti sulla Costituzione che, da studente, gli sarebbero valsi una sonora bocciatura con pubblico ludibrio. O peggio, la citazione virgolettata di un testo tratto da una scrittrice notoriamente impegnata sulle tematiche della libertà sessuale, non riconosciuta e non contestualizzata, tanto da far gridare orde di attivisti all’omofobia, prima di rendersi conto che stavano attaccando la propria defunta beniamina. O ancora, la celebrazione di un libro raffazzonato e poco approfondito, che ha trasformato un onesto alto ufficiale alla vigilia del congedo pensionistico in una sorta di intellettuale nazionale.
La raffinata prosa di Sciascia, Calvino, Pavese; la vibrante provocatorietà di D’Annunzio; l’incisività della narrativa di Primo Levi e la profonda testimonianza di Carlo Levi; Slataper o De Roberto: astrusi e incomprensibili per la quasi totalità dei lettori.
Non resta che l’invettiva, uno sguaiato finto realismo che scimmiotta il verismo, la ricerca pruriginosa di descrizioni ginecologiche o urologiche, un intimismo autoerotico e non certo introspettivo.
La letteratura agonizza, ma non è che il sintomo dell’asfissia del pensiero.