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Il diavolo nella mia libreria

Il diavolo mi guarda beffardo, con il viso di un ironico Alfredo Panzini. A giorni uscirà, nella collana “I faggi” di Marcovalerio Edizioni, “Il diavolo nella mia libreria“. Un testo cosiddetto minore del grande romanziere romagnolo, più noto al grande pubblico per “Il padrone sono me”. Un piccolo classico, che ho curato con passione particolare, dedicandogli fuori orario ben più dei tredici secondi netti che l’editore prevede siano il tempo massimo per spedire di corsa in tipografia quei libri che servono appunto a tenere impegnare le macchine da stampa fra un best seller e l’altro.
Sconvolti dalla notizia? Ormai, se seguite questo sito, lo sapete che il redattore ordinario è un vecchio cinico e astioso. Anche con i classici della letteratura.
Per Alfredo Panzini, tuttavia, come per pochi altri, questo abitante delle grotte nutre una particolare predilezione. Forse perché anche Panzini era a modo suo un simpatico cinico, un uomo capace di slanci profondi nella sua opera, meno nota, di autore per la scuola, ma capace di pennellate all’acido nei confronti della “democrazia” degli Anni Venti, quella che traghettò l’Italia dallo slancio unitario alla palude giolittiana, tanto simile almeno per quantità e abnormità degli scandali alla contemporanea, e da questa al fascismo, cui Panzini ebbe la colpa di guardare con insufficiente antipatia, ragione dell’ostracismo perpetrato alla sua opera.
Bando alle divagazioni letterarie, torniamo al diavolo, anzi alla libreria, o meglio ancora ai classici.
Un classico è, per definizione, un libro vecchio, che si legge, anzi si deve leggere, per affrontare un esame o per completare la propria cultura. Libro profondamente diverso, almeno nella tradizione editoriale italiana, dal nuovo successo dell’ultima scoperta letteraria dell’editore, destinato invece a rendere piacevoli le serate e le giornate festive dei lettori normali, quelli che leggono per il puro piacere di leggere.
Sul piano delle scelte di produzione, un nuovo titolo è, almeno idealmente, un libro da vetrina. Un classico è, inesorabilmente, un tomo da scaffale.
Per distinguerli basterebbe guardare le copertine. Quelle dei nuovi titoli devono essere sempre brillanti e vivaci, quelle dei classici togate e polverose, sapere di antico. Plastica contro legno, per intenderci.
La distinzione nella veste esterna non è tuttavia sufficiente. Un classico deve per forza, altrimenti non è un classico, essere corredato di un’ampia introduzione critica, possibilmente dal taglio accademico, preferibilmente anche molto noiosa, in cui si descrive anzitutto la biografia dettagliata dell’autore, i suoi rapporti con altri autori celebri suoi contemporanei, insistendo eventualmente sul singolo occasionale incontro, in una taverna, con altri autori storici da antologia scolastica. Che Panzini, per tornare al nostro, abbia seguito le lezioni di Carducci e abbia incontrato una volta Pascoli, sono notizie fondamentali. Anche che abbia avuto quattro figli e uno di essi sia morto in giovane età. Ne avesse avuti soltanto due, guai, non potremmo inserire il suo testo fra i classici. Il suo pensiero politico è meno importante. Meglio lasciarlo ai margini, perché si correrebbe il rischio di etichettare “Il padrone sono me” come un inno al fascismo venturo.
Immaginate l’ultimo successo di Federico Moccia preceduto da una storia della sua vita, un ampio paragrafo dedicato al suo occasionale incontro, due anni or sono, mentre prendeva il caffé in autogrill, con Giorgio Faletti, e relativo capitolo sulle reciproche influenze letterarie fra i due scrittori. Corredate il testo di un robusto impianto di note a piè di pagina, per spiegare agli studenti dove si trova Ponte Milvio, da chi fu costruito, un’altra noterella per farci sapere chi è l’inventore del lucchetto, magari una bella scheda didattica a fine capitolo con domande tipo: “Su quale fiume è stato costruito il ponte Milvio? A – Arno, B – Ofanto, C – Tevere”
Non iniziate a sogghignare pensando alle note a piè di pagina per “Cinquanta sfumature di grigio”: restate seri e attenti, perché la questione non è  marginale. Se qualcuno continua a ridacchiare dovrà leggersi tutta l’opera di Pitigrilli per punizione.
Se volete conoscere la biografia di Federico Moccia, non avete che da digitare il suo nome e cognome sul motore di ricerca e, d’incanto, Wikipedia vi risponderà con tutti i dettagli possibili. Se volete conoscere la biografia di Alfredo Panzini, non avete che da scrivere Alfredo Panzini e, guarda che incredibile scoperta, oltre a Wikipedia, troverete persino un bellissimo portale a lui interamente dedicato, dove oltre alla biografia dettagliatissima troverete la bibliografia completa, passi delle sue opere, ampie citazioni, schede di lettura e approfondimenti.
Eppure, per pubblicare un libro di Federico Moccia, a nessuno è venuto in mente fosse necessario precedere la narrazione con trenta pagine di analisi critica. Neanche per pubblicare i romanzi di Umberto Eco, che nell’ateneo bolognese è di casa e la biografia ragionata poteva scriversela anche da solo. A dire il vero, quando “Il padrone sono me” fu pubblicato, non venne in mente neanche allora fosse necessario raccontare tutti i fatti dall’autore o chiedere un parere retribuito a un qualsiasi professore universitario bolognese.
Invece, per leggere oggi Alfredo Panzini, pare sia obbligatorio sciropparsi la prefazione scritta da un tesista e firmata da un cattedratico. Guai se osate godervi “Il diavolo nella mia libreria” se al liceo non avete studiato “Il padrone sono me”. Men che meno, ardire portarselo in spiaggia. Panzini si deve rigorosamente leggere seduti composti alla scrivania, con un vocabolario alla propria sinistra e un quaderno a righe sulla destra.Lei, sì dico a lei, studente della quarta fila a destra, la smetta di sorseggiare quella bibita. Sta leggendo Alfredo Panzini, diamine, mica un Umberto Eco qualunque. Stia composto, schiena dritta e risponda: in che provincia si trova Senigallia, città natale del nostro?
Ora, il dilemma mi attanaglia. Per sbaglio, alcune settimane or sono, il centralino mi ha passato la telefonata di un lettore. Era un poco indispettito perché la meritoria impresa di aver ripubblicato i Cento Anni di Giuseppe Rovani in edizione tascabile economica, salvando dall’oblio un’opera a mio parere fondamentale dell’Ottocento, da decenni introvabile sugli scaffali a meno di dissanguarsi con la monumentale edizione critica Einaudi, era stata suo dire rovinata dalla scelta di pubblicarla sic et simpliciter. Neanche una decina di pagine scopiazzate da un’enciclopedia scolastica per raccontare la vita di Giuseppe Rovani. E neppure una spruzzata di noterelle qua e là, di quelle da testo di liceo dove ci spiegano ad esempio che il ramo del Lago di Como non va inteso in senso letterale, e che intanto bisogna girare per Lecco e poi è inutile prendere il binocolo per vedere se qualcosa galleggia sull’acqua, oppure che il libro galeotto di Paolo e Francesca non era stato preso in prestito nella biblioteca di Poggioreale. Il lettore era davvero deluso, le voleva quelle noterelle. Perché, mi ha spiegato con aria paterna al telefono, i Cento Anni sono un classico e pertanto le note ci vogliono. Se no, non è un classico e gli tocca leggerlo per il puro piacere di leggerlo, soltanto perché è un bellissimo libro, avvincente per l’intreccio e per la ricostruzione storica.
La notte incombe ma il dilemma è irrisolto. Lascio la domanda ai lettori di questo sito. Volete leggere “Il diavolo nella mia libreria” di Alfredo Panzini per il solo gusto di leggere un bel libro, cogliendo la critica sociale sottesa al contrasto fra i libri che l’autore racconta di aver ereditato dalla vecchia zia, resti dell’epoca della Restaurazione, e alcuni persino antecenti alla Rivoluzione Francese, contrapposti all’epoca in cui l’autore scrive, a cavallo fra gli Anni Dieci e gli Anni Venti del Novecento, sconquassati dai rivolgimenti sociali della Grande Guerra e dai moti socialisti che trasformeranno le campagne romagnole prima dell’avvento del Fascismo (quelle mirabilmente descritte ne “Il padrone sono me”), oppure preferite che vi racconti prima la vita di Alfredo Panzini, la sua infanzia a Rimini, gli studi a Venezia, la sua felice vita di professore liceale e di autore di antologie scolastiche. Sapere che morì a Roma e fu sepolto a Santarcangelo è per voi importante? Ditemelo per favore. A me, scrivere quelle dieci paginette, non costa quasi nessuna fatica. A voi, leggerle?
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Del romanzo ai tempi della crisi

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Con il trascorrere degli anni, immerso nella lettura dei manoscritti che giungono a catinelle in redazione, ho assistito alla vertiginosa crescita di una narrativa in bilico fra introspezione minimalista e attualità quotidianista. Lungi ogni paragone, quando parlo di introspezione minimalista, ai grandi percorsi di Italo Svevo, quanto piuttosto una passione smodata per un mondo narrativo placentale, ridotto all’io superficiale e ben attento a non indulgere ad approfondimenti, da un lato, quanto non confrontabile con l’attenzione al vissuto dei grandi romanzieri del Dopoguerra, si vogliano citare Pavese o Vittorini, Silone o Brancati, ancorati al momento storico e, in qualche modo, condannati all’epoca di cui sono testimoni. Insomma, storie che si possono ridurre ad una serie ridottissima di fabule.
Fra queste, dopo l’innovazione del romanzo storico di Eco, la ripetizione pressoché infinita di ambientazioni fantastico storiche condite di misteriosi quanto elementari intrighi esoterici.
Al secondo posto, le attualizzazioni della modernità moraviana, con la replica estenuante dei drammi topici della borghesia nostrana, che spaziano dalla condizione di solitudine affettiva femminile intorno alla quarta decade di vita, alla tragedia dei sacrifici di giovani privi dei mezzi di sostentamento vitali, primo fra tutti il credito di telefonia mobile, fino alle cruenti e sanguinarie battaglie per giungere in tempo utile all’ora felice dell’aperitivo urbano.
Infine, complice il successo linguistico di Camilleri, il profluvio dei cosiddetti gialli d’ambiente, dove alla parlata virtualmente in uso a Porto Empedocle si sostituisce di volta in volta quella in uso a San Damiano d’Asti, a Roccaraso o Casal di Principe.
Semplifico, naturalmente, ma come noto l’orizzonte culturale del redattore ordinario appena si innalza al di sopra delle letture ginnasiali. Eppure la semplificazione estrema corrisponde alla maggior parte delle storie che vengono proposte alle case editrici.
Fra i vari modelli ispiratori, uno certamente è invece assente. Potremmo definirlo epico contemporaneo. Se vogliamo è il modello che ha caratterizzato la narrativa italiana dell’Ottocento, si pensi a Rovani, ma anche, con una prospettiva completamente diversa, Verga o Fogazzaro. Quello che viene definito “grande respiro”, quando identifica opere di elevata qualità, oppure “polpettone” quando riferito alla produzione seriale di bassa lega.
 Ampio respiro o polpettone, l’epica ha caratterizzato la produzione di molti Premi Nobel stranieri. Anche i più leggeri romanzi di Steinbeck dipingono il ’29 dell’ovest americano, come la Macondo del sud di quel continente incarna nazioni intere nelle loro crisi devastanti.
In Italia abbiamo avuto la grande stagione della narrativa partigiana, con una coralità paragonabile, e, in tempi recenti, la narrativa di impegno politico, dove il politico è prevalso sull’impegno al punto da diventare non di rado ideologico.
Ora, nel nostro Ventinove, il redattore ordinario non ha ancora visto giungere manoscritti che parlino di uomini e topi, mentre nelle città gli uni e gli altri si contendono la perlustrazione delle immondizie, né di aureliani sconfitti, che pure nelle valli alpine collezionano disfatte devastanti quanto quelle degli eterni rivoluzionari sudamericani. Il massimo dell’epica è, come due o tre anni or sono, il racconto breve della precarietà. Romanzo a termine, a progetto, mi verrebbe da ironizzare.
Non è un invito o una polemica, ma un interrogativo senile, e come tale limitato e ottuso, sulla direzione che prenderà, o che verosimilmente non imboccherà, il romanzo italiano della seconda decade del secolo. Racconterà di vecchi che razzolano fra gli scarti alimentari dei mercati metropolitani? Di uomini e talvolta famiglie residenti in vecchi furgoni? Di uomini che si suicidarono sotto il peso dei debiti e delle imposte? Di giovani e di poliziotti che si affrontarono a muso duro per una galleria in una valle sperduta ai confini della Nazione? Se vogliamo, sono tutti temi epici, come molti altri della nostra grande depressione. O prevarrà la leggerezza insostenibile di una borghesia sconfitta?