Alla vigilia dell’edizione 2019 del Salone del Libro di Torino, è uscita questa intervista a Marco Civra, direttore editoriale di Marcovalerio Edizioni. La riproponiamo, come dato di archivio.
Nata nel 2000, Marcovalerio Edizioni è oggi un marchio controllato dal Centro Studi Silvio Pellico. A dirigerla, fin dalla sua fondazione, è Marco Civra. Classe 1961, laurea in pedagogia, un passato da giornalista professionista in campo politico, prima nei quotidiani poi nelle istituzioni dello Stato, Civra presiede dal 2013 il Centro Studi Silvio Pellico, una no profit che ha incorporato Marcovalerio insieme ad altri marchi editoriali, come Ajisaipress, specializzata nela produzione di schemi di ricamo rinascimentali e vittoriani, che diffonde in tutto il mondo, Ivo Forza, donata dal suo fondatore al Centro Studi per garantirne la continuità, ed altri marchi di cultura.
Una casa editrice no profit, concentrata sulla produzione di titoli di elevato valore culturale e sulla difesa del patrimonio letterario che rischia di disperdersi di fronte alla grave crisi dell’editoria in generale. Negli anni ha tenuto a catalogo molti classici introvabili, come i Cento Anni di Rovani o la quadrilogia di Antonio Fogazzaro, ha salvaguardato la disponibilità di autori meno noti ma non minori come Faldella, riscoperto testi come “L’uomo, questo sconosciuto” di Alexis Carrell, ma anche opere di autori contemporanei di grande spessore. Ad esempio i sei volumi de “La filosofia” di due giganti del pensiero conservatore contemporaneo, come Vittorio Mathieu e Aldo Rizza.
È inoltre impegnata da anni nella produzione specifica di titoli a grandi caratteri per lettori ipovedenti. Un settore di nicchia, ma in costante crescita, che rappresenta il principale impegno sociale e al quale Marcovalerio destina i proventi delle altre collane,
1) La tua casa editrice, quindi, parteciperà a pieno titolo al Salone del Libro? No, perché…
Dire la “mia” casa editrice non è corretto. È vero, dal 2000 dirigo questo piccolo marchio, al quale ho deciso di dedicare la seconda parte della mia vita professionale e culturale. Marcovalerio resta tuttavia un patrimonio condiviso fra i soci e i sostenitori di questo progetto. Non perseguiamo il successo, né tantomeno risultati economici. Forse, proprio per questa ragione, in realtà, successo e stabilità economica, in tempi difficili per il settore come quelli odierni, ci hanno raggiunti nostro malgrado.
La questione Salone del Libro è delicata. La nostra posizione critica risale agli inizi del secolo. Quella grande intuizione di Guido Accornero e Angelo Pezzana, che nel secolo scorso fece incontrare, al tempo a Torino Esposizioni, grandi e piccoli editori gli uni a fianco degli altri, aveva ed avrebbe ancora oggi un senso.
Amo ricordare di quegli anni il mio incontro con Lorenzo Enriques, di fronte allo stand in allestimento. In maniche di camicia, sudaticcio per lo sforzo di scaricare scatoloni, l’amministratore delegato di Zanichelli, si mise a conversare di libri fra un carrello e un nastro da pacchi. Era la stagione del multimediale nascente. Mi tolsi la giacca e aiutai ad aprire gli scatoloni nella fiera in allestimento e, fra un pacco di libri e l’altro, nacque il progetto della prima edizione interattiva della Divina Commedia su floppy disk, che fu poi sponsorizzata da Apple. Quello era lo spirito del salone. Lettori, scrittori, editori, riuniti intorno alla passione, presi dal sacro furore della cultura. Negli stand potevi incontrare redattori e direttori editoriali. Non c’era bisogno di sale e presentazioni: gli scrittori erano lì, in mezzo al pubblico, libri ovunque. Cercavi un autore di una casa editrice e lo trovavi nello spazio del concorrente, intento a spulciare tra i volumi, perdevi uno dei tuoi e lo pescavi dai vicini e discutere del loro ultimo progetto. Un caos creativo, ma produttivo. Invece di convegni inutili sulle politiche di promozione del libro e della lettura, si producevano libri e si leggeva.
Poi venne la stagione grigia, quella delle sale multicolori e degli autogrill. Della grandeur spocchiosa e delle sponsorizzazioni milionarie da parte delle istituzioni e delle fondazioni. Dagli stand delle case editrici scomparvero i direttori editoriali, i redattori e persino gli scrittori, trasferiti sui palchi, e rimasero soltanto i commessi precari.
Vorrei raccontare un altro aneddoto, emblematico dello spirito successivo. Inizio degli Anni Duemila, fra i padiglioni del Lingotto si aggira un signore molto anziano, incerto, spintonato da orde di scolaresche del tutto disinteressate ai libri, in corsa verso l’incontro programmato con la soubrette di turno. A pochi metri, con passo tronfio, seguito dal codazzo di nani e ballerini abituale, un certo Picchioni esegue la danza del pavone, quasi calpestandolo.
Mi avvicino e gli chiedo come posso aiutarlo. Fu così che conobbi Ulrico Carlo Hoepli, accompagnando uno dei più grandi editori italiani ai servizi igienici. E fu così che ricevetti, nel corso di una breve ma ricchissima conversazione, alcuni dei consigli più preziosi per la minuscola casa editrice che dirigo: di fronte ai lavandini dei bagni del quinto padiglione del Lingotto.
2) Gli editori, i grandi ma anche e soprattutto i piccoli, hanno molto battagliato perché Torino non perdesse il Salone. È stata una battaglia sbagliata, quindi?
Affatto. Torino deve difendere il Salone, anzi deve riconquistarlo, perché la disastrosa gestione del recente passato lo aveva fatto scomparire. Deve riprendere il modello culturale delle origini, vera formula di successo. Che è poi la formula della Buchmesse di Francoforte ancora oggi. A Francoforte, per scelta, non partecipa il pubblico, ma le ricadute della fiera tedesca sul mercato editoriale europee sono immense. In quei padiglioni ho potuto incontrare editori di tutto il mondo e scambiare diritti che hanno portato autori torinesi ad essere pubblicati negli Stati Uniti, in Venezuela, persino in Vietnam.
Tuttavia, è anche il caso di dire che forse la stagione dei Saloni è terminata.
3) In che senso la stagione dei Saloni è finita? Davvero è solo una velleità degli autori emergenti quella di essere al Lingotto?
La difesa del Salone del Libro di Torino è curiosamente tanto più furiosa quanto meno contano le case editrici. Meno interesse i lettori nutrono per le loro produzioni tanto più i titolari di questi marchi si prodigano in comitati e associazioni a favore della manifestazione del Lingotto. È un dato che tempo fa mi incuriosiva, finché un piccolo ma onesto editore locale mi ha rivelato l’arcano: sono gli autori a chiederlo. E dal momento che gli autori sono i veri clienti di quell’editore, egli non poteva certo sottrarsi alla battaglia.
Basta visitare il sito internet di buona parte di questi pasdaran per scoprire l’arcano. Dopo l’inevitabile pistolotto sulla necessità di chiedere un contributo agli scrittori per poterli pubblicare, sottolineano che quel contributo servirà a promuoverli nei saloni e nelle fiere, con il Lingotto in prima fila. Poco importa se nessun lettore si avvicinerà ai parti ululanti trasferiti su carta da questi vanitosi celebratori di se stessi. L’importante sarà poter esibire di fronte a parenti e amici una fotografia dentro lo stand, con la copertina del proprio libercolo in bella vista. Così il Salone del Libro di Torino si appresta a diventare, dopo la stagione degli aperitivi picchioniani, la stagione degli aperitivi della vanity press. Ancora una volta, nani e ballerini. Questa volta anche ballerine.
Quanta differenza con la sobrietà e l’intensità della Buchmesse, per citarla ancora come esempio da imitare.
Una volta entrai a curiosare nello stand iraniano a Francoforte. C’era una sola persona presente in quel momento, un signore brizzolato che mi invitò a prendere il tè. Conversammo amabilmente per oltre un’ora di Islam e Cristianesimo, di cultura occidentale e mediorientale, persino di diritti delle donne. Al momento di salutarci, scambiammo finalmente i biglietti da visita. Scoprii che avevo trascorso parte del pomeriggio con Alireza Ali Ahmadi, ministro dell’educazione in carica dell’Iran.
Questa è la magia del Salone di Francoforte. Questa potrebbe essere, se ritrovata, la magia del Salone di Torino. Ridiventare luogo di incontro culturale, dove piccoli editori come noi e grandi editori si confrontano e si cambiano esperienze.
La stagione dei cafoni, mi sia permesso il termine, deve finire.
4) Assumendo questo tuo punto di vista, come altro si potrebbe promuovere il libro e la lettura?
È molto semplice: pubblicare buoni libri e lasciare che i lettori li scelgano liberamente. Alcuni anni fa, in occasione dell’ultimo incontro con Rolando Picchioni, incontro che terminò non a caso in uno scontro, avanzai provocatoriamente una proposta. Visto che gli introiti veri della fiera derivavano dalle sponsorizzazioni istituzionali e in parte irrilevante dagli ormai sparuti editori presenti – era l’anno in cui il Salone dichiarò alla stampa la presenza di oltre 1400 espositori e dimostrai, catalogo alla mano, che gli editori effettivamente presenti erano meno di 300 – lo invitai a trasformare il biglietto di ingresso in buoni acquisto spendibili presso gli editori, che agli editori sarebbero stati rimborsati solo per il cinquanta per cento. In questo modo i visitatori avrebbero sicuramente acquistato libri all’interno del Salone Un sistema selettivo e premiante per le produzioni di qualità, ben più dei contributi a pioggia della Regione Piemonte, che mettono sullo stesso piano editori veri e stampatori e pagamento.
5) Quale il ruolo che può esercitare la mano pubblica e quale i privati, magari in rete tra loro?
Nella situazione attuale, l’unico vero ruolo che la mano pubblica potrebbe esercitare sarebbe il totale ritiro da ogni attività in campo culturale, compresa l’abolizione dell’assessorato che pare ironico definire competente. Fuori dalla facile satira, in occasione degli Stati Generali della Cultura della Regione Piemonte ho ribadito che l’ente pubblico deve svolgere il ruolo di facilitatore, non di imprenditore mascherato o peggio di elargitore di contributi. Perché se i contributi sono a pioggia, come avviene troppo spesso, finiscono per creare una falsa apparenza di giustizia, ma premiano allo stesso modo chi produce realmente cultura e chi produce carta da macero, in una spirale nella quale vince il più bravo a raccontare frottole. Se i contributi, invece, sono mirati, finiscono inevitabilmente per essere destinati ai sodali dell’assessore di turno. Escludendo la malafede, l’abissale ignoranza riesce a provocare danni ancora maggiori. Per restare nella nostra regione, i contributi mirati, anziché promuovere libri e cultura, hanno troppe volte sostenuto guide turistiche e album di foto ricordo. Anche se da alcuni anni porto avanti un progetto di valorizzazione territoriale, ritengo che la frammistione fra cultura, spettacolo, turismo ed enogastronomia siano uno dei gravi errori negli indirizzi pubblici degli ultimi anni. Personalmente amo la buona tavola in località amene, ma non confondo questo con la lettura.
6) Tocca, insomma, archiviare per sempre i grandi eventi che hanno costruito quel Sistema Torino, che proprio nei libri di Bruno Babando che tu pubblici è stato ben descritto?
Bruno Babando è un giornalista geniale e proprio per questo inviso al sistema. Il Sistema Torino purtroppo non è stato costruito su grandi eventi. Avesse realizzato grandi eventi, ne avremmo almeno ricevuto qualche beneficio. Eventi effimeri quanto appariscenti, quelli sì rappresentano il Sistema Torino. Il Salone del Libro dell’era Picchioni di grande non ha avuto nulla. Concordo con i suoi sostenitori che le ricadute sulla città e sull’intera regione sono state di enorme portata: pari a un bombardamento. Quella visione ha provocato danni immani e ci vorranno decenni per rimuoverne le macerie. Per quasi una generazione le risorse che potevano essere destinate alla cultura sono stati ingoiate da una fabbrica dell’avanspettacolo. Anche di pessimo gusto.
7) Tra l’altro, nelle politiche culturali, possiamo dire che la continuità è superiore alla discontinuità? Oppure c’è proprio nulla?
Sono notoriamente un conservatore, anche se fuori dal coro di quelli che oggi si spacciano per tali. Confesso di aver sperato che un sano scossone al barcone politico che ha caratterizzato quel sistema torinese e piemontese al potere per troppi anni potesse essere salutare. Purtroppo, pochi mesi sono stati sufficienti per verificare che lo scossone, come denuncia, su un fronte politico lontanissimo dal mio, Gabriele Ferraris, si è tradotto nel mero taglio degli investimenti e nel ritorno al mito delle periferie e dell’immobilismo che tanto piaceva quasi mezzo secolo fa a Diego Novelli. Peggio ancora, con la diminuzione dell’acqua disponibile nella vasca dei pesci rossi, molti di essi si sono trasferiti, magari mutando colore, pari pari nella boccette asfittiche delle nuove amministrazioni, elemosinando le briciole che caratterizzano il massimo orizzonte del loro pensiero. Direi che assistiamo a una perfetta continuità, ma anche a una lenta agonia.