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Venerdì 13 maggio, presentazione Spirale Aurea a Palma di Montechiaro

La Spirale Aurea del Gattopardo.
Presentazione e convegno dedicato alla figura 
di Giovan Battista Hodierna
alla Chiesa Madre di Palma di Montechiaro

Il genio di Giovan Battista Hodierna tra storia e scienza è il tema dell’incontro organizzato venerdì 13 maggio 2022, alle ore 17,30, presso la Chiesa Madre di Palma di Montechiaro, a cura dell’Archeoclub locale, con il patrocinio dell’amministrazione comunale.
Pietro Flaccabrino, presidente dell’Archeoclub, il sindaco Stefano Castellino e l’arciprete don Gaetano Montana introdurranno i relatori del dibattito.
Insieme all’autrice del saggio, prof.ssa Crocifissa Mangiavillano, intervengono il prof. Santo Burgio dell’Università di Catania, l’arch. Salvatore Scuto, il dr Carlo Sortino.
La serata prevede un intermezzo musicale a cura di Domenico Pontillo e Rino Boccadoro. Ingresso libero.
 

 

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Lupus in tabula, lapsus in fabula e altri qui quo qua letterari

Complice la stanchezza, complice la fretta, sempre più spesso giungono tanto in redazione quanto ai nostri magazzinieri richieste decisamente strampalate. che mano mano hanno contribuito a creare un catalogo del tutto virtuale di titoli che solo apparentemente rientrano nel nostro seppur piccolo catalogo di narrativa e saggistica.

Libri mai scritti e che mai verranno pubblicati, ma con titoli decisamente intriganti, che stimolano la nostra curiosità verso una sorta di Necronomicon. Se nessuno ci ha mai chiesto, con nostro estremo dispiacere la Teoria e prassi del collettivismo oligarchico di Emmanuel Goldstein, ecco una lista curiosa di classici della letteratura che i nostri distributori e diversi librai ci hanno chiesto.

  • Il peccato di Loreto
    Un’interessante variazione del romanzo di Alberto Boccardi, in cui si affronta il tema del senso di colpa di un pappagallo dedito al turpiloquio.

  • La Badessa di Cagliostro
    Romanzo esoterico di Marie-Henri Beyle, noto anche come Stendhal, in cui si tenta di conciliare fede cristiana e magia, con risvolti inattesi.

  • Destino simile è accaduto ad un altro guru della spiritualità, Roy Eugene Davis, il cui manuale L’arte della realizzazione del Té ci ha aperto nuove vie di meditazione. Non meno di un altro suo titolo, diventato… Immortalità incosciente.

    Se agli scrittori inesistenti, due studiosi importanti hanno dedicato addirittura un’enciclopedia, il nostro piccolo catalogo si arricchisce ogni giorno di libri inesistenti di scrittori assolutamente veri.

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La fine di Internet… (con una nota sulle violazioni da parte di Huawey)

city buildings during night time

city buildings during night time

Era l’estate del 1990. Infuriava la guerra in Medio Oriente, dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’esercito iracheno. Internet esisteva già, nella sua struttura tecnologica, ma il world wide web sarebbe nato soltanto un anno più tardi.

Due giovanotti smanettoni – oggi li definiremmo hacker – violando la rete Itapac, una tecnologia a pacchetto che oggi ci pare primitiva ma che all’epoca sembrava un’innovazione futuristica, fischettando dentro un accoppiatore acustico per agganciare la portante, si collegavano da Torino con New York, dove un collega smanettone teneva aperto un canale telematico con Tel Aviv, nelle ore di tensione del conflitto appena esploso. Non c’era Twitter, non c’erano gli smartphone, e la notizia che erano stati lanciati 42 missili SS-1 Scud sul territorio di Israele dilagò in diretta grazie a poche righe battute su uno schermo da un hacker ebreo prima di interrompere la comunicazione e correre nei rifugi antiaerei.

Accoppiatore acustico

Internet arrivò poco dopo, e la grande Rete mondiale, che attraverso il monitor ci permette di leggere le notizie della CNN, guardare i filmati di un meteorite in Siberia, farci proporre improbabili affari milionari dalla Nigeria e acquistare cianfrusaglie in Cina, senza muoverci dalla sedia, ci ha abituati poco a poco all’idea che i confini globali siano definitivamente superati. Tutto è a disposizione. Anche i desideri più loschi e repressi hanno un proprio luogo virtuale, il dark web raggiungibile tramite Tor.


Internet sta cambiando rapidamente. Purtroppo perdendo mano mano la sua globalità. La guerra tecnologica fra Stati Uniti e Cina per le tecnologie 5G, le accuse reciproche di controllo sui “big data” – la mole immensa di informazioni che ciascuno di noi riversa in Rete semplicemente navigando e che permette, a puro titolo di esempio, a Facebook di propinarci la pubblicità dei cateteri se abbiamo scritto una mail alla zia per sapere dove acquistare i pannoloni per il nonno incontinente – sono solo un aspetto di questa mutazione in atto.

Lo sviluppo dell'”Internet delle cose” – quella tecnologia che ci permette di accendere a distanza un termostato in montagna con una app del nostro telefono – ha creato una corsa all’accaparramento di dati che hanno valore immenso: la geolocalizzazione automatica di tutte le fotografie e filmini che riversiamo qua e là, la tracciatura dei nostri spostamenti, e, infine, il nostro indirizzo di posta elettronica, per tempestarci di pubblicità e inviti truffaldini.

Il costo di questa “guerra dei dati” si riversa sulla Rete. Se ne accorgono i webmaster, i tecnici che gestiscono i siti Internet grandi e piccoli, perché il carico di flusso aumenta costantemente, non perché aumentano i visitatori, ma perché migliaia di “bot”, di motori di ricerca automatici, scansiscono la Rete e intasano i siti web talvolta fino a farli collassare.

A Google, Bing e agli altri di ricerca noti, si accodano migliaia di “spider” che passano in rassegna i siti internet per carpire informazioni, email, riempire in modo automatico e invadente i moduli di contatto con proposte improponibili e del tutto prive di interesse, copiare informazioni e creare siti clone, prelevare file e distribuirli su forum russi o turchi di pirateria e così via.

A queste migliaia di mosche ronzanti, si è aggiunto da qualche giorno Petalbot, il motore di ricerca in fase di lancio da parte di Huawey dopo l’espulsione del colosso della telefonia cinese dalla galassia Google. Petalbot non rispetta le “regole” di accesso di motori. Se io bloccate dagli ip cinesi si ripresenta da un ip di Singapore, che però si traveste a ip nigeriano per ingannare ulteriormente i blocchi. Non molla e non demorde. Con tutta la potenza del colosso che lo ha lanciato dentro ai vostri siti e con tutta l’arroganza e la violazione di ogni regola.

Così, giorno dopo giorno, i webmaster iniziano a bloccare, con plugin come IQ Block Country o altri simili, l’accesso ai visitatori delle nazioni che non portano alcun tipo di traffico utile al sito internet, ma anzi ne intasano e danneggiano la funzionalità.

In fondo, non ha alcun senso lasciare aperto un sito che vende libri italiani a visitatori turchi e di buona parte dei paesi islamici, visto che la quasi totalità del traffico che proviene da Turchia, Bangladesh, Pakistan ed Emirati Arabi è un tentativo di sfondare le difese del sito e inserire filmati di propaganda della Jihad. Non ha senso lasciare aperto il sito ai visitatori russi, visto che quasi sempre i contenuti vengono “analizzati” soltanto per copiarne una parte nei forum di pirateria che accolgono copie dei libri in violazione del copyright. Togliamo anche la Nigeria, per le email di scam, Singapore per i motori pubblicitari; Albania, Bulgaria e Olanda per i continui tentativi di accedere a immaginari archivi di carte di credito. Infine togliamo gli account universitari statunitensi e sudafricani, perché palestra di giovani hacker; quelli delle ex repubbliche sovietiche e tedeschi, perché generano soltanto commenti indesiderati.

Una chiusura progressiva che coinvolge i piccoli siti Internet, ma che ormai pervade anche le grandi piattaforme internazionali. Se cerco su Google Italia trovo gli stessi dati che ottengo cercando su Google USA? A parte il fatto che se non sapete come “truccare” il vostro ip facendo credere di essere visitatori di un Paese diverso dal vostro non riuscirete neppure ad accedervi, fate qualche ricerca. Magari su Amazon Italia e Amazon UK o Amazon JP. Merce diversa, prezzi diversi.

Alla fine cosa resta? Resta una Rete fatta di visitatori nazionali, e neanche completa. Quello che era nato come il sogno della globalità senza confini, della possibilità di farsi conoscere in tutto il mondo, di acquistare in Nuova Zelanda e proporre il proprio lavoro in India, vendere in Canada e fare accordi in Brasile restando comodamente a casa propria, svanisce lentamente.

Cosa resta? Piccole botteghe di quartiere. Gruppuscoli su Facebook dove ci si scambia notizie e pettegolezzi, oppure pubblicità stracciona sul proprio Comune o quartiere. Tutte cose che potremmo fare benissimo andando a prendere un caffè al bar o distribuendo un volantino, con il rischio di incontrare persone piacevoli, scambiare due chiacchiere e persino una proposta di lavoro concreta.

In compenso, finito questo articolo, possiamo blaterale ad Alexa: “spegni la luce nello studio e prepara il caffè”. Risparmiando l’immane fatica di pigiare un interruttore sulla parete mentre ci incamminiamo stancamente verso la cucina, dopo uno sguardo distratto alla telecamera di sicurezza sulla quale è comparso per un secondo il vicino di casa con il quale non ci rivolgiamo la parola da sette anni.

 

 

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Drabble, la narrativa espresso ai tempi di Twitter

Un drabble è una breve forma di finzione lunga esattamente 100 parole (senza includere il titolo). Oltre ad essere molto divertente, la forma breve può anche incoraggiare le persone che non hanno mai scritto nulla prima di provare, ma scrivere una storia coerente e coinvolgente in sole 100 parole è molto impegnativo.

https://www.urbandictionary.com/define.php?term=drabble

Cosa rende interessante e piacevole un drabble?

Un drabble è come una qualsiasi opera narrativa: deve avere un inizio, un centro e una fine. L’inizio prepara la storia, il mezzo è la carne (la progressione della storia) e la fine fornisce la conclusione. Molti dei migliori drabbles hanno una svolta nel racconto: l’inizio e il mezzo ti porteranno in una direzione attesa e poi la fine conclude il percorso narrativo.

In molti modi questo è simile alla struttura tradizionale di uno scherzo: si ambienta la scena, accade qualcosa e poi si cerca di sorprendere il pubblico. Questo funziona bene con la forma breve del drabble. Ancora meglio, quando la fine non solo sorprende, ma fa sì che il lettore rivaluti l’inizio e il centro con una nuova chiave di lettura.

Come si costruisce una storia in così poche parole?
La prima bozza è raramente vicina ad essere composta da 100 parole e, come qualsiasi altra opera scritta, è anche molto raro che questa prima versione sia degna di essere condivisa, quindi l’editing è la chiave per ottenere il conteggio delle parole richiesto.

Questo è anche un aspetto utile per sviluppare le abilità di scrittura, dato che il conteggio delle parole rigoroso insegna come essere “economico” con le parole. Una volta che hai tra le mani una prima bozza, leggila, se sei solo una dozzina di parole fuori allora è un caso di scegliere le parole giuste per la stesura definitiva.

Elimina tutto ciò che non è necessario. Come ogni modifica, devi essere brutale, ma non così tanto da perdere il messaggio principale della storia.
Se sei più lontano dal conteggio esatto delle parole, allora dovrai cercare di eliminare intere frasi – come con le parole vaganti, rimuovere tutto ciò che non è il nucleo della storia che stai raccontando.

Lo scopo di una storia può essere ancora abbastanza drammatico, ma ci dovrebbero essere solo uno o due fili del racconto. Stai collegando elementi disparati che tendono a gonfiare il numero delle parole, quindi chiediti, qual è la storia che stai raccontando?

Di cosa dovrebbe occuparsi un drabble?
La risposta è semplice, può essere qualsiasi cosa! I drabbles sono una forma di finzione. Puoi scrivere storie d’azione, erotiche o romantiche, qualsiasi genere ti piaccia.

Soprattutto, scrivere dovrebbe essere un divertimento, per l’autore ma sempre e soprattutto per il lettore. Scrivere è un’attività che si migliora con la pratica e i drabbles sono un modo divertente per esercitarsi.

Visita drabl, piattaforma anglosassone

Il mondo anglosassone offre svariati esempi di piattaforme utili agli scrittori di drabbler. Ad esempio 101fiction. Esiste persino un generatore di drabbler automatico, per quanto dagli esiti quasi sempre imprevedibili.

Ci sono anche strumenti online utili per chi volesse cimentarsi con questa tecnica narrativa. Il più interessante è wordcounter, che oltre ad offrire il conteggio automatico delle parole, presenta altri strumenti di controllo editoriale piuttosto raffinati, anche in ambito grammaticale.

Cosa state aspettando? Proponete il vostro drabble in italiano.

Scegli uno dei generi fra quelli sopra riportati
Prima di incollare il testo qui ricordati di controllare che sia esattamente di cento parole. Altrimenti verrà scartato automaticamente dal sistema e non ci arriverà.
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Perché la vostra traduzione potrebbe non interessarci…

… e, aggiungiamo, quasi certamente non ci interesserà.

Abbiamo già parlato in dettaglio della ragione per la quale la vostra tesi non è un saggio e non siamo interessati a pubblicarla. Poiché tuttavia, molti studenti si laureano in lingue e letterature straniere, occorre aggiungere una postilla: perché la vostra traduzione del celeberrimo romanzo più o meno conosciuto del celeberrimo scrittore ugandese (nepalese, azeibargiano, inuit, o qualsiasi altra lingua abbia utilizzato per la sua opera) non può interessarci.

Siamo certi che l’opera che avete tradotto sia intessante. Siamo altrettanto certi che la vostra traduzione è perfetta, anzi, un capolavoro. Ma proprio non possiamo pubblicarla.

La ragione è molto semplice: non abbiamo i diritti per farlo. E neppure voi avete i diritti per proporla. La vostra traduzione, finché resta nell’ambito della vostra passione privata o in quello didattico accademico, è giustificata. Ma per diventare un oggetto editoriale deve rispettare quella materia sconosciuta e ignorata che si chiama diritto d’autore.

VI segnaliamo alcuni approfondimenti sul tema:

https://rivistatradurre.it/2014/04/i-diritti-editoriali-questi-sconosciuti/

https://www.lucalovisolo.ch/traduzione/professione/autopubblicare-le-traduzioni-i-diritti-dautore.html

e in particolare, solo dopo che avrete letto attentamente gli articoli precedenti, date una pacata lettura a questo utilissimo articolo, che vi spiega come fare per poter tradurre legittimamente un libro altrui e proporlo eventualmente a una casa editrice:

Come fare una proposta editoriale

Vi riproponiamo un passaggio di quest’ultimo articolo, certi che tanto non leggerete tutto il testo, dove invece trovereste molte utili, anzi utilissime indicazioni.

Per sapere se un libro è già stato tradotto, si può cercare la bibliografia dell’autore nel catalogo nazionale delle biblioteche italiane. Se il libro è già stato pubblicato, verosimilmente lì lo troveremo. Tuttavia, se un libro non è presente, soprattutto se è uscito da poco, non è detto che qualche casa editrice non l’abbia già comprato e dato in traduzione.
Se il libro non è presente sul catalogo, l’unico modo per essere sicuri che i diritti del libro siano ancora liberi è scrivere o telefonare alla casa editrice del testo in lingua originale.

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Del salone e del libro

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“Torino provincia di Milano, da capitale a dépendance della Madonnina”, un titolo pubblicato anni or sono dalla nostra piccola, anzi minuscola, casa editrice, è curiosamente il libro più citato in questi giorni di acceso dibattito sul futuro della promozione editoriale e libraria italiana. Una citazione non casuale, per quanto ci riguarda, perché i pochi lettori del nostro blog sanno quanto per dieci anni esatti abbiamo insistito, inascoltati, sull’urgenza di cambiare completamente linea di azione per il Salone del Libro di Torino.
Non siamo mai stati sostenitori di una formula culturale, quella adottata dal capoluogo piemontese con spocchia e autoreferenzialità, incentrata su presunti “salotti buoni” di presunti “autorevoli intellettuali” che di buono e di autorevole, a nostro modestissimo parere, nulla avevano e nulla hanno.

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La nostra ultima partecipazione al Salone del Libro di Torino risale appunto al decennio scorso. Quella manifestazione dove autori ed editori potevano incontrarsi e far nascere opere, si era già trasformata in un circo mediatico nel quale il libro, e con esso la cultura, erano ormai totalmente assenti.
Ci appare quindi francamente priva di significato una polemica in difesa del Salone del Libro di Torino. Da almeno dieci anni, non esiste a Torino un salone del libro. Non è esistita neppure una politica culturale in senso ampio.
Non entriamo nel merito delle prese di posizione dell’europarlamentare Mercedes Bresso o dell’assessore regionale Antonella Parigi, riassumibili nella rivendicazione di proprietà di un marchio registrato. Che la registrazione del marchio “salone del libro” rappresenti la linea del Piave di una disfatta condita di illeciti, nomine discutibili quando non addirittura patetiche, è un sintomo rivelatore della concezione debole della pretesa enclave culturale subalpina, che ha celebrato come vati della letteratura degli onesti imprenditori della comunicazione.
Una città, e un’intera regione, per le quali l’essenza della narrazione, della letteratura, dell’arte, della tradizione enogastronomica, si riducono al modello della Scuola Holden, alla cucina di Eataly, alla partecipazione provincialmondana di analfabeti benestanti al cosiddetto Circolo dei Lettori, altra esperienza di successo se si considerano i risultati relativi alla ristorazione ma certamente deludente se valutata dalla tipologia di libri presentati.

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Ciò che accomuna questo tipo di esperienze, con buona pace di Luca Beatrice, che tenta di fare prendere le distanze del palazzo di via Bogino dal carrozzone del Lingotto, è lo snobismo, nel senso originale di sine nobilitate, di una visione culturale da sagra del sedano. Non differente dalle pretese di molti assessori di borghi sperduti che, presentando il libro stampato nella tipografia di paese dal maestro elementare in pensione, pensano di coprire con una veste sontuosa l’annuale abbuffata di costine e bottiglioni di vino acido pomposamente ribattezzata come festival letterario.
È il provincialismo campagnolo che permise a Giovanni Soria di incamerare milioni invitando starlette al Castello di Grinzane Cavour, senza mai aver promosso, non diciamo a livello internazionale, ma almeno fuori dalla sua provincia, uno scrittore piemontese.
È ancora quella visione miope che fece fallire la partecipazione degli editori piemontesi alla Buchmesse di Francoforte, troppo impegnati a leggere la cronaca del quotidiano di casa mentre attorno a loro l’editoria mondiale si incontrava.
La nostra casa editrice non è iscritta all’Associazione Italiana Editori, né alla pattuglia di Fidare o Odei. Siamo irrilevanti, con i nostri 500 titoli prodotti in 15 anni di attività, con la nostra produzione assolutamente marginale, quasi ignorata dagli inserti degli organi di informazione, come è comprensibile siano ignorate le opere del filosofo dilettante Vittorio Mathieu, di storici domenicali della scuola come Redi Sante Di Pol e del medioevo come Francesco Panero, di sconosciuti imbrattacarte dell’Ottocento come Giuseppe Rovani e Antonio Fogazzaro. Come potremmo noi, e loro, competere con la monumentale epica di Luciana Littizzetto?
È quindi comprensibile l’astio piemontese anche nei confronti di un parvenu milanese, tal Federico Motta, titolare di un marchio editoriale fondato la scorsa settimana dalla produzione notoriamente incentrata sui volumi illustrati di gattini.
La risposta giusta, prontamente estratta dal cilindro della classe politica piemontese, è aprire alla partecipazione degli editori. Purché siano davvero editori di cultura, possibilmente in lingua piemontese, difensori del sano provincialismo subalpino, e quindi che possano dimostrare di non aver mai venduto un solo volume al di là del Ticino, e men che meno in una biblioteca americana o giapponese. Sotto la guida illuminata di un saggio, un maestro del giornalismo di ampio respiro, erede di Buzzati, di Arpino, di Frassati, quale Massimo Gramellini.

Nel merito delle domande giornalistiche che giungono in casa editrice in questi giorni, rispondiamo sinteticamente.

Ci è del tutto indifferente la scelta campanilistica di Torino o Milano come sede di una manifestazione del libro. Anche la proposta avanzata da Laterza di guardare a Bologna come possibile sede potrebbe avere senso.
Si tratta di una valutazione puramente logistica ed economica. La fiera nazionale del libro italiano vada dove ci sono le condizioni e gli spazi per realizzarla al meglio. Per meglio intendiamo migliori contenuti, più libri e meno magliette, più scrittori e meno cantanti, più editori e meno spacciatori di vanity press.

Il modello finora proposto da Torino è fondamentale, nel senso che è l’esempio di tutto ciò che non deve essere fatto. Possiamo anche difendere la città, proprio perché a Torino è nata la nostra casa editrice, ma non possiamo difendere la formula. Tuttavia non abbiamo alcun problema a cambiare sede. I nostri libri sono presenti in Italia, in Europa, in America, Asia e Oceania. Come andiamo a Francoforte, possiamo andare a Milano e Bologna. Per la sagra del sedano non abbiamo tempo.

Marco Civra
direttore editoriale
Marcovalerio Edizioni

Patrizio Righero
direttore editoriale
Vita Edizioni

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Del senso e del ruolo dell’editore. Della mafia. E della libertà

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A volte giungono in redazione manoscritti che non vorremmo leggere, saggi che non vorremmo pubblicare, testimonianze di vicende che non vorremmo fossero mai accadute. A volte le ore trascorrono lente, e il lavoro si protrae fino a notte fonda. Fra interrogativi e dubbi.

Perché abbiamo scelto di pubblicare libri? Qual è il ruolo di un editore? Rincorrere ciò che i lettori vogliono leggere, certo, acquistare carta a un euro il chilo per sporcarla di inchiostro e rivenderla a venti euro il chilo. Oppure colpirli con verità scomode, arrogarsi il diritto pedagogico di educare il pensiero e farlo crescere, superando pregiudizi e ignoranze dei quali siamo tutti quanti ammantati.

È un dilemma attuale. Specie in questi giorni, nei quali i commenti pseudo giornalistici e le bacheche dei social network sono popolate dalle polemiche sulla pubblicazione e sulla presentazione di un libro sicuramente inopportuno, perché banale operazione di marketing, il diario del figlio di Totò Riina.

A noi poco importa di quel libro. Se fosse giunto in redazione lo avremmo semplicemente cestinato senza neppure rispondere, come spesso facciamo, al proponente. Non sappiamo e neppure ci interessa quale ne sia l’editore.

Ci scandalizza invece, e ci disgusta anche, la squallida operazione promozionale di alcuni pseudolibrai, perché definirli librai è un’offesa alla categoria, che hanno appiccicato cartelli nei quali si vantano di “non vendere e non ordinare” quel libro. Sono poveri imbecilli, sia detto con paterno affetto, perché diventano testimoni sciocchi di questa società colma fino al vomito di luoghi comuni e chiacchiere da caffè sport.

Nessuno qui in redazione, e ne abbiamo discusso, si sognerebbe di acquistare e leggere quel libro, sia ben chiaro. Ma non sta a noi, e tantomeno a un libraio, decidere quale sia la verità, quale sia la giustizia, e soprattutto quali libri possano o non possano essere pubblicati, quali libri un cittadino possa o non possa leggere. Il nostro direttore editoriale, anni fa, rilasciò un’intervista nella quale affermava che, se esiste la libertà di pensiero, deve essere legittimo scrivere saggi nei quali si sostiene che il Sole gira attorno alla Terra e che Galileo Galilei si è sbagliato, scrivere pamphlet negazionisti sulla Shoah, o agiografie di Stalin.

La libertà è anche il diritto di dire, scrivere, sostenere coglionerie immani, senza essere arrestati.

Al massimo, si spera che il sistema culturale sia abbastanza determinato nel non pubblicare simili farloccherie, evitando di darle in pasto a lettori ingenui che potrebbero anche credervi. Noi cerchiamo di non pubblicarle, certo, e ciononostante molti lettori delle nostre pubblicazioni potranno legittimamente sostenere che abbiamo pubblicato talvolta opere a loro parere farlocche.

Chi ha diritto, tuttavia, di stabilire quale sia la Verità incontrovertibile e pubblicabile e vendibile ai lettori? Un Editore di Stato, magari, come ve ne sono in qualche nazione. Un censore del pensiero unico, che inizierà a epurare i libri inadatti, impedendone la pubblicazione, e se pubblicati, vietandone o boicottandone la vendita, e se venduti, bruciando le copie nelle case dei cittadini rei. Siamo certi che quest’ultima ipotesi faccia sorgere qualche reminiscenza letteraria anche ai librai che hanno esposto i cartelli sui libri che “non intendono vendere né ordinare”. O almeno ce lo auguriamo.

Perché se i falò di Farenheit 451 non sono balzati loro di fronte agli occhi, non dovranno stupirsi il giorno in cui qualche gruppo estremista, di destra, di sinistra, di qualche setta fanatica, assalterà le loro librerie per il fatto di “aver ordinato e venduto” un certo libro. Qualsiasi libro sia.

Anni fa, un editore sicuramente progressista e antifascista, decise di pubblicare in italiano il Mein Kampf di Adolf Hitler. Certo non per inneggiare al nazismo, ma perché quell’opera deve essere disponibile ai lettori, affinché capiscano, comprendano, da dove nacque quell’orrore. Noi non lo avremmo pubblicato, ma è giusto che qualcuno abbia scelto di farlo.

Ogni volta che un libro viene bruciato, in senso fisico o metaforico, un pezzo di libertà e di cultura viene bruciato con esso.

Accade così che, taluni giorni, nel diluvio di proposte che si affacciano in formato elettronico nella casella postale, arrivino testi scomodi. Testi che leggiamo con fastidio iniziale, testi che scartiamo con rabbia e indignazione. Altri che raccontano storie che vorremmo non fossero mai accadute. Vicende dove l’uomo rivela il peggio di se stesso.

Talvolta leggiamo fino a notte fonda. E nella notte ci interroghiamo. Qual è il ruolo di un editore, dunque, nell’epoca dell’autopubblicazione, della democrazia culturale che rende tutto uguale, tanto un saggio scientifico e documentato quanto uno sproloquio vaneggiante? Sporcare carta o restare incollati nel buio che ci circonda, non solo in senso proprio, e provare a tenere acceso un lume? Noi, in questa notte strana, continuiamo a leggere, a interrogarci. E per una volta, rivolgiamo la stessa domanda a tutti voi.

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I bestseller
Marcovalerio del 2015

Come ogni anno, stiliamo la classifica dei libri più venduti negli ultimi dodici mesi, riproponendovi i piccoli successi editoriali della nostra casa editrice. Anche il 2015 riserva sorprese e conferme, dimostrando che i lettori premiano i libri ben strutturati e che, in qualche modo, la tanto sbandierata crisi dell’editoria è in verità una crisi dei “lettori deboli”.

In testa alla classifica un titolo del marchio Vita Edizioni, il piccolo volumetto dedicato a Papa Francesco.

PAP-9788875473532

Al secondo posto, stabile nella classifica dei libri più venduti da oltre un decennio, un classico assoluto della spiritualità, Il Regno di Dio è in voi di Leone Tolstoi.

TOL-9788888132341

Al terzo posto, a sorpresa, un romanzo storico che ricostruisce la storia rocambolesca di Ciccilla, figura tragica e sanguinaria del brigantaggio calabrese, che terminò la sua vita nella fortezza di Fenestrelle, in Piemonte, L’ultima brigantessa di Rocco Giuseppe Greco.

BRI-9788875473105

Saldamente in classifica anche quest’anno il piccolo manuale di esordio di Valentina Sardu, nel frattempo divenuta un’affermata autrice di craft con i suoi schemi di ricamo apprezzati in tutto il mondo. Il suo tascabile dedicato al Furoshiki, l’antichissima arte giapponese di annodare i foulard raccoglie consensi continui.

FCR - 9788875473136Al quinto posto un saggio impegnativo, scritto da Andrea Scartabellati, in tema con il centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale. Dalle trincee al manicomio racconta il dramma dimenticato di decine di migliaia di reduci dalle atrocità della guerra, devastati e spesso abbandonati a se stessi.

MAN - 9788875471354

 

 

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App per le città
e i territori smart

Smart city è un approccio culturale in grado di generare, in modo “intelligente”, condizioni infrastrutturali, tecnologiche e di governance per produrre opportunità di lavoro, promuovere benessere sociale, aumentare la qualità della vita e favorire lo sviluppo sostenibile.

Ebbene sì, parliamo di app
e di smartphone… 
ma non solo

La diffusione degli smartphone dei tablet ha profondamente modificato il nostro modo di comunicare, ma anche e soprattutto il nostro modo di rapportarci ai servizi, alla mobilità, al territorio. I servizi di geolocalizzazione rappresentano la base per tutta una serie di applicativi che permettono di interagire facilmente e rapidamente. La connettività diffusa e permanente ci permette di rapportarci in tempo reale con la realtà circostante. I sistemi di interazione, dagli ormai “vecchi” ma pochissimo sfruttati qrcode, i codici a barre bidimensionali che ogni smartphone è in grado di leggere captando informazioni complesse con una semplice fotografia, ai sistemi di pagamento di prossimità, hanno accelerato i processi. Pagare un parcheggio in città, scaricare una guida audio in un museo e ascoltarla, effettuare una chiamata di emergenza sanitaria fornendo automaticamente la propria posizione, sono tutte applicazioni ormai diffuse, anche se talvolta poco conosciute dagli utenti.

I nostri telefoni di ultima generazione sono spesso pieni di giochi, divertenti e un poco inutili, quando potrebbero diventare ottimi strumenti di lavoro, permettendoci di risparmiare tempo e denaro. E sono anche strumenti con i quali le aziende e soprattutto chi governa potrebbero fornire servizi avanzati e graditi ai cittadini. Questo ebook, che potete scaricare per leggerlo comodamente su un tablet o sul vostro personal computer è una raccolta di app intelligenti, smart appunto, che offrono servizi di elevata qualità e permettono un’interazione rapida, reciproca ed economicamente vantaggiosa, fra cittadini, imprese e pubblica amministrazione. L’invito agli amministratori è provarle e comprenderne le grandi potenzialità. L’invito ai cittadini è di trovare un po’ di spazio nel loro magnifico e tecnologico smartphone, magari a scapito di qualche brano musicale o di un gioco, per iniziare a scoprire quante cose si possono fare con un iphone, un android o un windows phone.

Commenti, segnalazioni di nuove app, sono quanto mai graditi.


Questo ebook dinamico, destinato ad essere aggiornato periodicamente, proprio per la sua natura smart, è la naturale integrazione del volume

Luigi Pinchiaroglio
Appunti di viaggio verso le città e i territori smart

PIN-9788875474140

pubblicato nel mese di marzo 2015. Raccoglie e recensisce le applicazioni mobili, le cosiddette app, che specificamente propongono soluzioni smart per la qualità della vita, la sviluppo, la tutela dei cittadini, l’ordine pubblico, la salute.

I contenuti di questo articolo sono liberamente scaricabili in formato ebook, periodicamente aggiornato.


 Mica tutto è smart…
ci sono vecchie cose molto smart e nuove cose molto dumb

Piccola premessa, che potete saltare tranquillamente se lo scopo per cui state leggendo queste righe è cercare la prossima app con la quale intasare il vostro telefono.

Il concetto smart ci sembra oggi legato esclusivamente alle nuove tecnologie, come se l’unico modo di realizzare un progetto intelligente fosse creare un progetto nuovo. In realtà molte attività vecchissime, assolutamente non tecnologiche, sono smart nel senso più profondo. Uno dei pilastri del concetto smart è la partecipazione. Quella vera, in cui lo scambio di informazioni sia attivo da entrambi i lati e non solo a senso unico,

Facciamo qualche esempio concreto.

Se una pubblica amministrazione realizza un sito internet bellissimo, pieno di effetti speciali, con tanto di streaming televisivo per trasmettere in diretta i consigli comunali, notiziario in tempo reale sui cantieri aperti, ma non apre un canale attraverso il quale i cittadini possano segnalare disfunzioni, problemi, o una banale buca in una strada, non ha intrapreso un verso percorso smart. Peggio, se attiva questi strumenti e poi non li utilizza, affidando la lettura dei messaggi a impiegati disinteressati che non consulteranno mai i messaggi o non avranno la capacità di sintetizzare, nel flusso certamente caotico e magari eccessivo di informazioni poco utili, quelle davvero importanti.

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expoDi numeri verdi dove non risponde nessuno, servizi di assistenza ai clienti con tempi di attesa di settimane, pagine facebook abbandonate, app per consultare gli orari dei mezzi pubblici basate su stime costruite a tavolino, la Rete internet è stracolma. Persino di servizi di mappe che hanno spedito gli automobilisti a galleggiare in mezzo ai torrenti. Tempo fa, in una metropoli, attivarono con grande dispendio di denaro e di pubblicità, un servizio smart per segnalare ai ciechi la giusta fermata del tram. Calcolando i tempi programmati e non quelli reali. I ciechi scendevano tranquillamente… alla fermata sbagliata.

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L’idea che si possano condividere passioni e interessi, scambiando liberamente un’ora del proprio tempo e della propria competenza, è assolutamente vecchia. Le banche del tempo sono un’iniziativa concreta e molto vivace, attiva in molte realtà urbane. Non è necessario un sito internet per incontrarsi. Anzi, per scambiare del tempo, è indispensabile condividerlo, personalmente piuttosto che virtualmente. Un sito internet potrà essere utile per elencare le competenze disponibili in quella particolare banca del tempo, non certo per scambiare tempo virtuale.

 

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