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Drabble, la narrativa espresso ai tempi di Twitter

Un drabble è una breve forma di finzione lunga esattamente 100 parole (senza includere il titolo). Oltre ad essere molto divertente, la forma breve può anche incoraggiare le persone che non hanno mai scritto nulla prima di provare, ma scrivere una storia coerente e coinvolgente in sole 100 parole è molto impegnativo.

https://www.urbandictionary.com/define.php?term=drabble

Cosa rende interessante e piacevole un drabble?

Un drabble è come una qualsiasi opera narrativa: deve avere un inizio, un centro e una fine. L’inizio prepara la storia, il mezzo è la carne (la progressione della storia) e la fine fornisce la conclusione. Molti dei migliori drabbles hanno una svolta nel racconto: l’inizio e il mezzo ti porteranno in una direzione attesa e poi la fine conclude il percorso narrativo.

In molti modi questo è simile alla struttura tradizionale di uno scherzo: si ambienta la scena, accade qualcosa e poi si cerca di sorprendere il pubblico. Questo funziona bene con la forma breve del drabble. Ancora meglio, quando la fine non solo sorprende, ma fa sì che il lettore rivaluti l’inizio e il centro con una nuova chiave di lettura.

Come si costruisce una storia in così poche parole?
La prima bozza è raramente vicina ad essere composta da 100 parole e, come qualsiasi altra opera scritta, è anche molto raro che questa prima versione sia degna di essere condivisa, quindi l’editing è la chiave per ottenere il conteggio delle parole richiesto.

Questo è anche un aspetto utile per sviluppare le abilità di scrittura, dato che il conteggio delle parole rigoroso insegna come essere “economico” con le parole. Una volta che hai tra le mani una prima bozza, leggila, se sei solo una dozzina di parole fuori allora è un caso di scegliere le parole giuste per la stesura definitiva.

Elimina tutto ciò che non è necessario. Come ogni modifica, devi essere brutale, ma non così tanto da perdere il messaggio principale della storia.
Se sei più lontano dal conteggio esatto delle parole, allora dovrai cercare di eliminare intere frasi – come con le parole vaganti, rimuovere tutto ciò che non è il nucleo della storia che stai raccontando.

Lo scopo di una storia può essere ancora abbastanza drammatico, ma ci dovrebbero essere solo uno o due fili del racconto. Stai collegando elementi disparati che tendono a gonfiare il numero delle parole, quindi chiediti, qual è la storia che stai raccontando?

Di cosa dovrebbe occuparsi un drabble?
La risposta è semplice, può essere qualsiasi cosa! I drabbles sono una forma di finzione. Puoi scrivere storie d’azione, erotiche o romantiche, qualsiasi genere ti piaccia.

Soprattutto, scrivere dovrebbe essere un divertimento, per l’autore ma sempre e soprattutto per il lettore. Scrivere è un’attività che si migliora con la pratica e i drabbles sono un modo divertente per esercitarsi.

Visita drabl, piattaforma anglosassone

Il mondo anglosassone offre svariati esempi di piattaforme utili agli scrittori di drabbler. Ad esempio 101fiction. Esiste persino un generatore di drabbler automatico, per quanto dagli esiti quasi sempre imprevedibili.

Ci sono anche strumenti online utili per chi volesse cimentarsi con questa tecnica narrativa. Il più interessante è wordcounter, che oltre ad offrire il conteggio automatico delle parole, presenta altri strumenti di controllo editoriale piuttosto raffinati, anche in ambito grammaticale.

Cosa state aspettando? Proponete il vostro drabble in italiano.

Scegli uno dei generi fra quelli sopra riportati
Prima di incollare il testo qui ricordati di controllare che sia esattamente di cento parole. Altrimenti verrà scartato automaticamente dal sistema e non ci arriverà.
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Perché la vostra traduzione potrebbe non interessarci…

… e, aggiungiamo, quasi certamente non ci interesserà.

Abbiamo già parlato in dettaglio della ragione per la quale la vostra tesi non è un saggio e non siamo interessati a pubblicarla. Poiché tuttavia, molti studenti si laureano in lingue e letterature straniere, occorre aggiungere una postilla: perché la vostra traduzione del celeberrimo romanzo più o meno conosciuto del celeberrimo scrittore ugandese (nepalese, azeibargiano, inuit, o qualsiasi altra lingua abbia utilizzato per la sua opera) non può interessarci.

Siamo certi che l’opera che avete tradotto sia intessante. Siamo altrettanto certi che la vostra traduzione è perfetta, anzi, un capolavoro. Ma proprio non possiamo pubblicarla.

La ragione è molto semplice: non abbiamo i diritti per farlo. E neppure voi avete i diritti per proporla. La vostra traduzione, finché resta nell’ambito della vostra passione privata o in quello didattico accademico, è giustificata. Ma per diventare un oggetto editoriale deve rispettare quella materia sconosciuta e ignorata che si chiama diritto d’autore.

VI segnaliamo alcuni approfondimenti sul tema:

https://rivistatradurre.it/2014/04/i-diritti-editoriali-questi-sconosciuti/

https://www.lucalovisolo.ch/traduzione/professione/autopubblicare-le-traduzioni-i-diritti-dautore.html

e in particolare, solo dopo che avrete letto attentamente gli articoli precedenti, date una pacata lettura a questo utilissimo articolo, che vi spiega come fare per poter tradurre legittimamente un libro altrui e proporlo eventualmente a una casa editrice:

Come fare una proposta editoriale

Vi riproponiamo un passaggio di quest’ultimo articolo, certi che tanto non leggerete tutto il testo, dove invece trovereste molte utili, anzi utilissime indicazioni.

Per sapere se un libro è già stato tradotto, si può cercare la bibliografia dell’autore nel catalogo nazionale delle biblioteche italiane. Se il libro è già stato pubblicato, verosimilmente lì lo troveremo. Tuttavia, se un libro non è presente, soprattutto se è uscito da poco, non è detto che qualche casa editrice non l’abbia già comprato e dato in traduzione.
Se il libro non è presente sul catalogo, l’unico modo per essere sicuri che i diritti del libro siano ancora liberi è scrivere o telefonare alla casa editrice del testo in lingua originale.

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Il romanzo come segno dei tempi

Un romanzo è figlio del tempo in cui viene scritto. A partire dalla fine del secolo scorso, non di rado con la tipica autoreferenzialità che caratterizza sempre questo tipo di dibattiti, il rapporto fra la mutazione sociale, politica ed economica di un Paese e la produzione narrativa è stato analizzato a fondo, cercando di identificare la caratterizzazione delle opere rispetto al cambiamento in atto.

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Così, la definizione di “New Italian Epic”, coniata da Wu Ming, ha etichettato il romanzo di fine Novecento come frutto dell’impegno intellettuale seguito al crollo della Prima Repubblica e a una presunta assunzione di consapevolezza sociale e politica, che culminerebbe, in questo primo decennio del ventunesimo secolo con “Gomorra” di Saviano. Il nuovo romanzo, secondo Wu Ming, deve unire la presa di posizione etica, la capacità di analisi innovativa, se necessario fino all’azzardo, a una capacità comunicativa dell’autore (o dell’editore aggiungiamo) di creare “networking”, ovverosia di coinvolgere i lettori in comunità di dibattito reali e molto più frequentemente virtuali e favorire con la sua opera la creazione di “lavori derivati”, in una sorta di “creative commons” multimediale.

In altre parole, quelle semplici e banali che noi preferiamo, lo scrittore dovrebbe essere schierato politicamente, ampiamente sostenuto da un’azione virale attraverso i mezzi di comunicazione, produrre opere facilmente riducibili in versione cinematografica, capace di inventarsi eventi che con la lettura in se stessa non hanno necessariamente legame, se necessario diventando personaggio televisivo e di cronaca. Soltanto in questo modo si può creare il best seller.

Tutto questo è sicuramente vero se lo scopo del narrare è, appunto, creare il best seller. Ci pare di ricordare che anche nell’Ottocento, un ricco signore milanese, scrivendo un romanzo storico ambientato nella Lombardia del Seicento, riuscì a metaforizzare il Risorgimento, coinvolgendo i lettori in operazioni trasversali e multimediali, grazie alla contemporanea musica verdiana, producendo un’opera storica con una precisa posizione etica, dalla quale sono derivate ispirazioni per un’intera generazione di scrittori e artisti. Il best seller, in questo caso, fu anche un capolavoro. Nè deve fare storcere il naso l’idea di fondo che, in linea di massima, un capolavoro quasi sempre diventi un best seller.

Più banalmente ancora, ci pare che considerare la narrativa di Alberto Moravia o di Cesare Pavese figlia del trentennio a cavallo fra il declino del Fascismo e il boom economico possa, in questo umile contesto, essere considerata una semplificazione accettabile per quanto riduttiva. Uno scrittore che non narrasse del suo tempo sarebbe o uno storico anziché un romanziere, o un autore di fantascienza, e anche su quest’ultima brutale semplificazione sicuramente chiediamo venia.

Se la stagione della nuova epica politica nel romanzo italiano appare conclusa con “Gomorra”, viene naturale chiedersi, oggi, quale percorso stia imboccando la nuova narrativa. A giudicare dalla variazione dei temi affrontati nei manoscritti che ci vengono sottoposti, siamo tentati di azzardare che il ripiegamento intimistico, l’analisi introspettiva e il distacco sociale siano il nuovo fronte del romanzo del secondo decennio di questo secolo. Un fronte, lo diciamo subito e con la cruda franchezza che contraddistingue questa casa editrice, al quale non daremo alcun sostegno, inteso come sostegno alla pubblicazione, a meno di ripensamenti puramente commerciali e distonici rispetto alla nostra linea culturale.

Proprio la crisi dei riferimenti sociali, conseguente a quella economica, e delle certezze che sembravano caratterizzare il mutamento politico degli Anni Novanta, chiamano lo scrittore a cimentarsi non sull’analisi del sé, ma sul tentativo di capire il mondo, e quindi gli uomini, che lo circondano. Perché tanto ci aspettiamo da colui che ambisce al titolo di intellettuale e non di scribacchino. Una richiesta che non deve essere intesa come un nuovo richiamo alla politicizzazione del romanzo in senso ideologico, che ci basterebbe seppellita con “Gomorra”, ma a un approfondimento nel quale l’uomo, il protagonista, viva una fabula constestualizzata nel momento storico. Momento che è politico, sociale, economico, ma anche personale. Elio Vittorini e Leonardo Sciascia lo seppero sicuramente fare, se ben ricordiamo.

Se così non sapremo fare, non ci resta che la manualistica, che rappresenta la sconfitta totale della letteratura come impegno sociale e il riconoscimento che il confine dell’orto è l’unico orizzonte al quale possiamo ambire.

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Grammatica di base per aspiranti scrittori – parole dubbie

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Entrambe succube: due parole che mi hanno perseguitata a lungo durante l’adolescenza. Avevo grosse difficoltà a ricordare se fossero invariabili o meno. E anche oggi ho dei momenti di dubbio in cui devo sforzarmi di ricordare la regola per farne un uso corretto.

Questo promemoria è quindi più per me che per voi, anche se suppongo di non essere la sola in Italia a soffrire di questa amnesia selettiva (benché del tutto involontaria).

Entrambe è un aggettivo/pronome numerativo per due (del tipo “ambo”, “ambedue”); pertanto, come per ogni altro aggettivo, prevede una forma maschile “entrambi”, usata quando i due oggetti a cui si riferisce siano  di genere maschile o anche uno di genere maschile e uno femminile (es. Giuseppe e Carla non mangiano carne: entrambi sono vegetariani”), e una forma femminile “entrambe”, da utilizzare se il sostantivo cui si applica è di genere femminile (es. “entrambe le volte”) o nel caso in cui si considerino due oggetti diversi, ma ambedue di genere femminile (es. Daria e Carla non mangiano carne: entrambe sono vegetariane).

Succube è abbastanza diffuso nella forma invariabile, dovuta ad un influsso francese; eppure, risalendo brevemente alla sua etimologia si scopre che è un aggettivo derivato dal latino. Per cui, a rigor di logica, dovrebbe seguire il genere del sostantivo cui fa riferimento: succuba e succubo.
In questo però la norma non è rigida, accettando la forma invariabile perché più diffusa, quindi più vicina al sentire comune.

Infine un lemma per cui la “perplessità” è legittima: esiste in italiano il verbo perplimere? La risposta, per quanto possa essere enigmatica, è ancora no.

L’origine è davvero recente: merito di una interpretazione di Corrado Guzzanti, che nello “storpiare” la lingua cercando un effetto comico ha creato una parola in grado di colmare una lacuna del nostro idioma. Infatti perplesso, che viene percepito come participio passato, non ha in italiano un verbo di riferimento.

Ancora no significa solo che la parola verrà ammessa nei dizionari se i linguisti riterranno, alla loro prossima revisione, che sia entrata a far parte in modo non effimero del vocabolario italiano.

Confermando, in tutti i casi, che l’italiano sia una lingua soggetta a modifiche, quindi viva.

Fonte originale dell’articolo: Liblog

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Grammatica di base per aspiranti scrittori – La punteggiatura

Esiste un libro, Virgole per caso, che ha per argomento proprio l’uso della punteggiatura sbagliata. Scritto da Truss Lynne, una giornalista stufa, come me, di leggere, anche presso i suoi colleghi, errori continui. Vediamo cosa dicono gli amici dell’Accademia della Crusca, sempre loro, sulla punteggiatura.

Il punto si usa per indicare una pausa forte che indichi un cambio di argomento o l’aggiunta di informazioni di altro tipo sullo stesso argomento. Si mette in fine di frase o periodo e, se indica uno stacco netto con la frase successiva, dopo il punto si va a capo. Il punto è impiegato anche alla fine delle abbreviazioni (ing., dott.) ed eventualmente al centro di parole contratte (f.lli, gent.mo), ricordando che in una frase che si concluda con una parola abbreviata non si ripete il punto (presero carte, giornali, lettere ecc. Non presero i libri).

La virgola indica una pausa breve ed è il segno più versatile, «può agire all’interno della proposizione, ma anche travalicarne i confini e diventare elemento di organizzazione del periodo nella sua funzione di cesura fra le diverse proposizioni»
Si usa, o almeno si può usare, la virgola: negli elenchi di nomi o aggettivi, negli incisi (si può omettere, ma se si decide di usarla va sia prima sia dopo l’inciso); dopo un’apposizione o un vocativo e anche prima di quest’ultimo se non è in apertura di frase (Roma, la capitale d’Italia. Non correre, Marco, che cadi). Nel periodo si usa per coordinare frasi senza congiunzione (es: studiavo poco, non seguivo le lezioni, stavo sempre a spasso, insomma ero davvero svogliato), per separare dalla principale frasi coordinate introdotte da anzi, ma, però, tuttavia e diverse subordinate (relative esplicative, temporali, concessive, ipotetiche, non le completive e le interrogative indirette). Le frasi relative cambiano valore (e senso) a seconda che siano separate o meno con una virgola dalla reggente: gli uomini che credevano in lui lo seguirono è diverso da gli uomini, che credevano in lui, lo seguirono.
La virgola NON si usa mai: tra soggetto e verbo (se non nei casi sopra indicati); tra verbo e complemento oggetto; tra il verbo essere e l’aggettivo o il nome che lo accompagni nel predicato nominale; tra un nome e il suo aggettivo.

Il punto e virgola segnala una pausa intermedia tra il punto e la virgola e il suo uso dipende dalla scelta stilistica personale. Serve a indicare un’interruzione formale ma non nei contenuti.

due punti avvertono che ciò che segue chiarisce, dimostra o illustra quanto è stato detto prima. Serianni riconosce quattro funzioni dei due punti: sintattico-argomentativa (si introduce la conseguenza logica o l’effetto di un fatto già illustrato); sintattico-descrittiva (si esplicitano i rapporti di un insieme); appositiva (si presenta una frase con valore di apposizione rispetto alla precedente); segmentatrice (si introduce un discorso diretto in combinazione con virgolette e trattini). I due punti introducono anche un discorso diretto (prima di virgolette o lineetta) o un elenco.

Il punto interrogativo si usa nelle interrogative dirette, segnala pausa lunga e intonazione.
Il punto esclamativo è impiegato dopo le interiezioni e alla fine di frasi che esprimono stupore, meraviglia o sorpresa; segnala una pausa lunga e intonazione.

punti esclamativo e interrogativo possono essere usati insieme, soprattutto in testi costruiti su un registro brillante, nei fumetti o nella pubblicità.

puntini di sospensione sono sempre tre e si usano per indicare la sospensione del discorso, quindi una pausa più lunga del punto. I puntini fra parentesi quadre indicano l’omissione di lettere, parole o frasi di un testo riportato.

Il trattino può essere di due tipi: lungo si usa al posto delle virgolette dopo i due punti per introdurre un discorso diretto o, in alternativa a virgole e parentesi tonde, si può usare in un inciso; breve serve invece a segnalare un legame tra parole o parti di parole e compare infatti per segnalare che una parola si spezza per andare a capo, per una relazione tra due termini (il legame A-B), per unire una coppia di aggettivi (un trattato politico-commerciale), di sostantivi (la legge-truffa), di nomi propri (l’asse Roma-Berlino), con prefissi o prefissoidi, se sono composti occasionali (per cui il fronte anti-globalizzazione ma l’antifascismo) e infine in parole composte (moto-raduno, socio-linguistica) in cui tendono a prevalere, però, le grafie unite.

La punteggiatura non va spaziata rispetto al testo che la precede, ma solo dal testo che la segue. Fanno eccezione le parentesi, il cui esterno rispetta questa regola, mentre l’interno non spazia mai (così).

Fonte originale dell’articolo: Liblog

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Grammatica di base per aspiranti scrittori – La D eufonica

Io amo molto la d eufonica, ovvero la d aggiunta ad una congiunzione o preposizione che incontri una vocale nella parola seguente. Trovo sappia dare armonia a frasi di dubbia sonorità e, se ben utilizzata, risolvere molte cacofonie.Se ben utilizzata, però.

Ci sono distinte teorie sul suo uso, una che propende per la semplificazione e una che tende a preservare la funzione primigenia.

La prima postula che si debba introdurre la d solo nel caso in cui siano in contatto due identiche vocali: e con e, a con a, et similia. Ne consegue che secondo questa teoria sia migliore “e anche” rispetto alla forma più conosciuta “ed anche”.

La seconda teoria si basa proprio sul motivo per cui la d eufonica nasce: evitare di pronunciare frasi cacofoniche. Per cui ogni volta che leggendo ci troviamo davanti ad una sonorità dubbia (a una o ad una?) il criterio per l’inserimento della d è la sua utilità nel rendere la frase più gradevole.

Nonostante l’Accademia della Crusca consigli il primo modo, da sempre io propendo per il secondo: la d eufonica non dovrebbe avere regole restrittive ma essere applicata ogni qualvolta si renda necessaria, onde permettere alle proposizioni di scorrere in modo piacevole.

Ovviamente l’orrore fonetico può essere causato anche da un eccesso di D eufonica, che non andrebbe mai usata in caso di ripetizioni di sillabe: “ed educazione”, “od odio”, “ad adempiere” sono sequenze insopportabili.

Resta come unico criterio di discernimento quindi, come spesso accade, il buonsenso, o se preferite il buongusto. E l’utile trucco di leggere ad alta voce il passaggio incriminato, per capire come possa suonare meglio.

Fonte originale dell’articolo: Liblog

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Grammatica di base per aspiranti scrittori – gli accenti

Ormai con i vari programmi, openoffice, word e simili, gli errori ortografici puri si sono ridotti drasticamente, per fortuna. Ma i programmi sono pur sempre programmi, ed hanno un bel correggere gli strafalcioni, gli autori sanno inventare sempre qualcosa di nuovo. Prontuario dei tasti dolenti, con l’aiuto dell’Accademia della Crusca:

NON si apostrofa qual è. Mai.

Ci sono dei motivi per cui esistono accenti di due tipi ed apostrofi, vediamo un po’ che uso farne: richiedono l’accento acuto sulla e finale:affinché, benché, cosicché, finché, giacché, né, nonché, perché, poiché, purché, sé (come pronome: “Tizio pensa solo a sé”), sicché, ventitré e tutti i composti di tre (trentatré, quarantatré, centotré, ecc.); infine, le terze persone singolari del passato remoto di verbi come battere, potere, ripetere, ecc.: batté, poté, ripeté, ecc.
In tutti gli altri casi, l’accento sulla e finale è grave. Ricordate, in particolare, di segnarlo sulla terza persona del presente indicativo del verbo essere: è, su tè e su caffè.

Mettere l’accento o meno in alcuni casi non è facile. Bisogna ricordare che l’accento NON si mette sui monosillabi (che orrore leggere: Non ci stà). Quindi non hanno MAI l’accento va (terza persona di andare), fa, sta, qui, qua.

dà (verbo dare): Mi dà fastidio –  da (preposizione): Vengo da Bari
dì (il giorno): La sera del dì di festa –  di (preposizione): È amico di Marco
è (verbo essere): È stanca –  (congiunzione): coltelli e forchette
là (avverbio di luogo): vai là –  la (articolo o pronome): La pizza, la mangi?
lì (avverbio di luogo): Rimani lì – li (pronome): Non li vedo
né (congiunzione negativa): Né carne né pesce – ne (avverbio o pronome): Me ne vado; te ne importa?
sé (pronome): Chi fa da sé fa per tre – se (congiunzione): Se torni, avvisami
sì (affermazione): Sì, mi piace – si (pronome): Marzia non si sopporta
tè (la bevanda): Una tazza di tè –  te (pronome): Dico a te!

Per gli apostrofi, questi indicano elisione: caso celeberrimo è il va’ pensiero (elisione da vai pensiero, quindi corretto). Seguono questa regola po’ (poco), fa’ (solo quando indica seconda persona – fai).

E per gli amanti del web, che spessissimo usano l’apocope (non è una parolaccia, ora vedrete), ecco grafie corrette, in neretto, ed in corsivo gli Orrori più usuali:

Beh be’ – bhe, bhé
Mah – mha
Ehm – hem, em

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Grammatica di base per aspiranti scrittori – Gli

Gli è una delle sillabe italiane che più si presta agli errori: sia come articolo sia come pronome ha usi formali e colloquiali divergenti e i principi che ne regolano l’uso sono sconosciuti ai più.

Partiamo dall’articolo: viene utilizzato davanti alle parole di genere maschile e numero plurale, che iniziano con una vocale, con s seguita da consonante, con i gruppi gn, ps, pn, x e z e, per eccezione, davanti a dei (plurale di dio). Nella lingua letteraria si apostrofa davanti alle parole inizianti in i, anche se è una grafia piuttosto obsoleta.

Discorso più complesso è quello che riguarda gli come pronome, che ha usi distinti nell’italiano standard (formale) ed in quello neostandard (lingua d’uso). Ha il valore di a lui, a esso, e si trova in posizione enclitica (unito alla fine della parola) o proclitica (prima della parola): digli, gli parli. Spesso accade di trovarlo al posto del complemento errato, invece che a sostituire il complemento di termine; è frequente sentir dire chiamagli al cellulare, ma chiamare regge il complemento oggetto (chiamare qualcuno), quindi bisognerebbe dire chiamalo al cellulare.

Il suo uso al posto del plurale comincia ad essere largamente accettato, come testimonia l’Accademia della Crusca:

Gli per loro è attestato nei dizionari più recenti, come il GRADIT, “Grande Dizionario Italiano dell’Uso” di Tullio de Mauro (2000, UTET), che nella definizione di gli scrive: “2 gli […] colloquiale, specialmente nella lingua parlata compare in alternativa a loro, a loro, a essi, a esse: quando me lo chiederanno, gli risponderò” [cioè risponderò (a) loro]. Il DISC; “Dizionario Italiano Sabatini Coletti” (1997, Giunti) scrive: “[…] come pl. gli (come esito del dativo latino plurale illis) è assai freq. in quanto forma più chiaramente atona (e quindi proclitica o enclitica) rispetto a loro […]”. Dunque, a parte la ragione etimologica a tale uso (loro invece deriva dal genitivo plurale illorum), esiste una giustificazione “pratica”, dovuta al fatto che per le altre persone esiste la possibilità di scegliere tra pronome enclitico e proclitico: mi dice / dice a me; ti dice / dice a te; gli dice / dice a lui; ci dice / dice a noi; vi dice / dice a voi; per la terza persona plurale questa possibilità non esiste: dice (a) loro e non *(a) loro dice: il pronome “mancante” viene, nell’uso, sostituito da gli. Tale forma è stata usata anche dal Manzoni: “Là non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d’età e di sesso, che stava a vedere. All’intimazioni che gli venivan fatte, di sbandarsi e di dar luogo, rispondevano con un lungo e cupo mormorio; nessuno si muoveva”. (Promessi Sposi, XIII).

In ultimo moltissimi utilizzano gli al posto di le, come invariante quindi; questo è da considerare tuttora un errore grave, benché ci siano esempi anche letterari che ne attestino la diffusione.

Fonte originale dell’articolo: Liblog

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Grammatica di base per aspiranti scrittori – Doppia i

Come si forma il plurale delle parole che terminano in -io? Sembrerebbe facile, ma in realtà così non è. La lingua italiana è più complessa di quanto non possa apparire e questo è uno dei casi più controversi.

Esistono almeno (e sottolineo almeno) due tipi di plurale per i lemmi in -io, distinguibili in base alla posizione dell’accento tonico. Nel caso in cui l’accento cada sulla i di -io, la o si trasforma in una seconda i (ad esempio rìo – rìi). Se invece l’accento si trova all’interno della parola, verrà semplicemente eliminata la o terminale (ad esempio maglio – magli).

Allora perché di tanto in tanto si trova una doppia i per formare il plurale di termini in -io? La -ii (meno di frequente l’accento circonflesso) è una forma utilizzata per eliminare ambiguità del testo, per distinguere nei casi in cui la parola possa essere scambiata per un altro plurale (omicidio omicida dovrebbero portare ambedue al plurale omicidi).

Fortunatamente, però, è un uso che sta diventando obsoleto, per due motivi fondamentali: in alcuni casi si opta per evidenziare l’accento (prìncipi – princìpi), ma in generale basta esaminare il contesto; se dico “Gli omicidi saranno presto catturati dalla polizia” ci sono pochi dubbi sul sostantivo che sto utilizzando.

Consigliabile, quindi, evitare la forma della doppia i, che conferisce al testo un sapore arcaico.

Fonte originale dell’articolo: Liblog

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Grammatica di base per aspiranti scrittori – Deissi

Cosa sono i deittici? Beh, tutte le espressioni o gli elementi della lingua che concorrono a indicare con precisione un determinato oggetto. Ovvero? In genere si tratta di pronomi dimostrativi (questoquello) e avverbi di tempo e luogo (quiieri).

Oltre queste specifiche forme di deissi esistono poi espressioni nel cui contesto alcuni termini assumono la connotazione di deittici: dritto, avanti, indietro, a sinistra e a destra sono gli esempi più comuni di deissi spaziale “contestuale“, utilizzata come tale generalmente nella prima persona.

Se dico a qualcuno “andiamo a sinistra” indico chiaramente uno spazio le cui coordinate sono note solo a noi parlanti, quindi ho una deissicontestuale; nel caso in cui io dica “Il personaggio andò a sinistra”, non avendo nessuna attinenza con me che enuncio l’uso non è deittico.

Le deissi pertanto hanno l’essenziale funzione di chiarire le informazioni, renderle meno ambigue e determinare con la massima precisione i riferimenti spazio-temporali del testo. In tutto ciò si nasconde tuttavia una trappola evidente.

Fondamentale quindi è il loro utilizzo nei testi tecnici, nei saggi, negli articoli giornalistici. Non altrettanto invece nella narrativa. Mentre un racconto o romanzo riesce a funzionare piuttosto bene anche nell’assenza quasi totale di deissi, difficilmente potrà funzionare bene quando ne ha in eccesso.

Ricorrerò ad un esempio creato appositamente dallo scrittore Filippo Di Paola per Liblog (colgo l’occasione per ringraziarlo); nel primo caso un testo scarno ma efficace, nel secondo un testo ridondante:

Si alzò, con le sue lunghe gambe, e afferrò un piccolo vaso dal tavolo vicino al nostro. Me lo mise praticamente in mano, e si risistemò sulla panca.
– Non ci vedo niente di strano –
Il vaso era usato come segnaposto, ed era abbellito con piccoli steli contorti che una volta reggevano fiori vivaci, ma che porgevano ormai solo spenti bottoncini gialli e viola adorni di petali ripiegati. Lo spinsi, allontanandolo dal mio piatto. Avevo avuto l’impressione che quei fiori si potessero sbriciolare dentro la mia colazione.

Si alzò, con quelle sue lunghe gambe che avevo ammirato e bramato fin dalla comune frequentazione universitaria, e afferrò un piccolo vaso dal tavolo vicino al nostro. Me lo mise praticamente in mano, e si risistemò sulla panca. Lo tenevo davanti a me come una reliquia, girandolo a destra e sinistra, in alto e in basso, scoprendo il fondo che recava solo la scritta di produzione.
– Non ci vedo niente di strano –
Quel vaso era usato come segnaposto, rigato qui da una striscia nera che evidenziava il bordo e lì da un piccolo numero, ed era abbellito con piccoli steli contorti che una volta reggevano fiori vivaci, ma che porgevano ormai solo spenti bottoncini gialli e viola adorni di petali ripiegati. Lo spinsi a sinistra, allontanandolo dal mio piatto. Avevo avuto l’impressione che quei fiori si potessero sbriciolare dentro la mia colazione.

Va da sé che solo per uno stralcio può andar bene il secondo tipo di prosa, ma un intero libro risulterebbe in poche pagine tedioso e pesante alla lettura. Buono quindi soltanto se utilizzato consapevolmente e coerentemente al proprio soggetto o pubblico.

Fonte originale dell’articolo: Liblog

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