Quale è il senso, per una casa editrice cosiddetta di cultura, continuare a pubblicare libri che i lettori non sono più in grado di comprendere? Non è una domanda provocatoria e periodicamente l’interrogativo serpeggia in redazione.
Che poi a porselo sia l’unica casa editrice italiana a pubblicare regolarmente e sistematicamente libri a grandi caratteri per favorire la lettura alle persone affette da dislessia, è ancora più grave.
Da anni, i nostri autori di livello accademico conoscono la fissazione redazionale di Marcovalerio Edizioni per la semplicità e chiarezza del linguaggio. «Se un lettore acquista un testo filosofico, pedagogico o scientifico – è uno dei motti – significa che non conosce la filosofia, la pedagogia, la scienza. È quindi nel pieno diritto di ricevere un testo comprensibile a un profano, con note esplicative e dal linguaggio privo di inutili contorsioni. Se il lettore non comprende, ha il diritto di protestare. Ed è un preciso dovere del docente scrivere in modo chiaro e comprensibile.»
Una fissazione vera e propria, che talvolta fa anche storcere il naso ad autorevoli saggisti. Un impegno che ci ha portato talvolta a pubblicare due versioni del medesimo testo: una propriamente accademica, rivolta agli addetti ai lavori, e una più agevole, divulgativa potremmo dire.
Eppure, malgrado questa tenzone estenuante, alla quale abbiamo sottoposto per decenni i nostri autori (e parliamo di penne del calibro assoluto come Vittorio Mathieu, Aldo Rizza, Redi Sante Di Pol, giganti nelle rispettive materie), dobbiamo prendere atto, lustro dopo lustro [N.d.R. “lustro” è in questo contesto sostantivo desueto per indicare un periodo consecutivo di cinque anni, non aggettivo riferito allo stato di pulizia delle copertine], che la capacità di comprensione del testo scritto scende sistematicamente e logaritmicamente.
La semplificazione dei concetti, pur giunta al livello di banalità, risulta, nella comunicazione pur firmata da giornalisti, docenti universitari, scrittori noti, comunque largamente incompresa e mistificata dai loro stessi lettori. Non parliamo di cogliere figure retoriche, sfumature ironiche o litoti, né di riconoscere citazioni e contestualizzarle.
Bastino come esempi la comunicazione in Rete, nella quale un professore universitario di diritto intima agli studenti di dedicarsi al karaoke se non in accordo con i propri convincimenti sulla Costituzione che, da studente, gli sarebbero valsi una sonora bocciatura con pubblico ludibrio. O peggio, la citazione virgolettata di un testo tratto da una scrittrice notoriamente impegnata sulle tematiche della libertà sessuale, non riconosciuta e non contestualizzata, tanto da far gridare orde di attivisti all’omofobia, prima di rendersi conto che stavano attaccando la propria defunta beniamina. O ancora, la celebrazione di un libro raffazzonato e poco approfondito, che ha trasformato un onesto alto ufficiale alla vigilia del congedo pensionistico in una sorta di intellettuale nazionale.
La raffinata prosa di Sciascia, Calvino, Pavese; la vibrante provocatorietà di D’Annunzio; l’incisività della narrativa di Primo Levi e la profonda testimonianza di Carlo Levi; Slataper o De Roberto: astrusi e incomprensibili per la quasi totalità dei lettori.
Non resta che l’invettiva, uno sguaiato finto realismo che scimmiotta il verismo, la ricerca pruriginosa di descrizioni ginecologiche o urologiche, un intimismo autoerotico e non certo introspettivo.
La letteratura agonizza, ma non è che il sintomo dell’asfissia del pensiero.
Allora ragazzi, immaginatevi questa situazione assurda: vi viene assegnato il compito di tradurre un saggio di un autore misterioso che per contratto dovrete incontrare, ma il bello è che lui indossa sempre una maschera in pubblico, quindi non saprete mai chi cavolo sia! Che roba strana, no? Ebbene, chiunque con un minimo di sensibilità professionale si rifiuterebbe senza pensarci due volte, giusto? Diamine, è una cosa che ti fa venire voglia di scappare a gambe levate!
Ma guarda che proprio i complottisti sono così, amici miei, non si fidano di nessuno! Figuriamoci poi di un povero traduttore! Ma, ad essere sinceri, posso capire la loro diffidenza, eh? Fanno benissimo a tenere le antenne sempre alzate.
La versione originale di questo manualetto è nata negli anni ’80, nel pieno della guerra fredda europea. Ma poi, pian piano, la paura del conflitto nucleare ha cominciato a scemare, e invece di manuali per costruire bunker, le guide di survival sono diventate quelle per escursionisti facoltosi. E da qui è nato il famigerato prepping, che è una vera e propria disciplina para sportiva!
Comunque, veniamo al dunque. J.T. Schwartz, l’autore di questo manualetto, era un tipo davvero particolare. Insomma, quello che oggi chiameremmo un complottista accanito! Leggeva con attenzione gli studi di esperti che avevano predetto la caduta dell’Unione Sovietica ben prima che accadesse. E quando non faceva quello, si divorava libri distopici come Brave New World e Pebble in the Sky. Un mix un po’ strano, devo ammetterlo.
Eh già, cari miei, ma il suo lavoro non rientra nel classico cliché “survivalista” apocalittico, né tantomeno nel più moderno prepping metropolitano, tanto in voga in Italia. No no, lui aveva le sue strade misteriose e, devo dirlo, un po’ inquietanti. Poi aveva anche questo odore di Ratlines o Rattenlinien del secondo dopoguerra, chissà cosa c’entrava!
Bene, il suo opuscolo finì in un cassetto di un editore e lì sarebbe rimasto se non fosse intervenuto un altro scrittore mascherato, tanti anni dopo, in un contesto internazionale che nessuno avrebbe mai previsto, tranne magari i lettori di quei libri distopici che lui adorava. Ebbene, questo scrittore ha tirato fuori di nuovo le “vie dei topi”, ma stavolta immaginandole per nonni e padri di famiglia che si rifiutano di adeguarsi a un credo di Stato sempre più invadente. Chissà cosa ci azzecca J.T. Schwartz in tutto questo!
Guarda, ve lo dico con sincerità, io J.T. Schwartz non l’ho mai incontrato di persona. Non so nemmeno se questo sia il suo vero nome o se sia un alias per nascondersi dagli agenti della Stasi, chi lo sa! Abbiamo scambiato un po’ di lettere, però, e dal timbro postale avevo capito che viveva di là dalla cortina di ferro, ma ogni tanto si concedeva un giro da queste parti. Nell’ultima lettera mi ha ceduto i diritti del suo scritto, chiedendomi di tradurlo e pubblicarlo senza menzionare il suo nome. Che storia, ragazzi! Ed eccomi qui, a fare quel che mi ha chiesto, anche se con 40 anni di ritardo!
Che vita strana, la nostra, e che storie assurde si possono incrociare! Ma alla fine, si sa, il mondo è un po’ un rompicapo, e magari J.T. Schwartz aveva già tutto previsto nelle sue visioni distopiche. Chi lo sa!
In un’epoca popolata di slogan e di inganni, spesso certificati pomposamente con sigle più o meno altezzose, produrre libri all’insegna del rispetto dell’ambiente in modo sostanziale e non formale è in realtà semplice.
Marcovalerio Edizioni, fin dagli esordi, ha scelto la strada di un ecologismo non di facciata, ma di sostanza. Per le nostre pubblicazioni abbiamo progressivamente abbandonato completamente l’utilizzo di carte patinate, che comportano lavorazioni ad elevato impatto ambientale, adottando invece carte naturali. Conservando la piacevolezza del tatto, i nostri libri invecchiano felicemente con i loro lettori: ingiallendo un poco nel tempo, come è bello che avvenga.
Siamo tuttavia andati oltre, grazie ad un massiccio impiego delle nuove tecnologie. La carta dei nostri libri è ecologica. Non usiamo carta riciclata, che comporterebbe altre operazioni impattanti sul fronte ambientale. La carta richiede cellulosa, e la cellulosa richiede alberi; ma se i boschi cedui (destinati al taglio) vengono reimpiantati sistematicamente, si crea un ciclo virtuoso che non impoverisce il territorio.
Con un grande sforzo economico per una piccola casa editrice come la nostra, commissioniamo la carta nel formato ottimizzato per i nostri libri, allo scopo di ridurre al minimo quelli che tecnicamente si definiscono “sfridi”.
Grazie alle tecnologie di stampa digitale, produciamo esattamente le copie che i lettori chiedono, mantenendo le rese al minimo necessario: questo significa che qualche volta dovete attendere un titolo ordinato un giorno in più, ma significa anche che i nostri distributori raramente rendono copie invendute.
I nostri conferimenti al macero sono da anni prossimi allo zero. La rare copie invendute o restituite perché lievemente danneggiate, vengono donate a scopi benefici. Nel 2022, abbiamo donato 22 mila euro di valore di copertina di libri per raccolte fondi.
Un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all’avanzare delle fiamme, tutti gli animali scapparono terrorizzati mentre il fuoco distruggeva ogni cosa senza pietà.
Mentre tutti discutevano animatamente sul da farsi, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d’acqua, incurante del gran caldo, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. A un certo punto il leone lo chiamò e gli chiese: “Cosa stai facendo?”. L’uccellino gli rispose: “Io faccio la mia parte!”.
Elogio dell’ignoranza, ovvero, se non amate particolarmente i libri, piuttosto che leggerne pochi, non leggeteli affatto.
Perché se leggete pochi libri, penserete di aver capito tutto, e invece sarete ben lontani dal comprendere minimamente il mondo che vi circonda.
Oggi, una studiosa che stimiamo, alle prese con un testo del Seicento, si è trovata di fronte a pavoni rosa.
Ora, è evidente che non esistono pavoni rosa, e non esistevano neppure nel Seicento. Eppure, in quel testo, i pavoni sono rosa, o meglio il rosa comprende anche il… verde pavone.
In apparenza.
Perché, come l’anziana studiosa ha rapidamente evidenziato, la parola inglese “pink” all’epoca veniva usata anche con il significato di “pigmento”, un particolare tipo di pigmento.
Immaginate ora di trovarvi di fronte a un testo che racconta di un treno che attraversa le grandi pianure americane… prima dell’invenzione della locomotiva a vapore. Ecco, in verità, la parola “treno” non nasce per descrivere una fila di vagoni ferroviari, ma più precisamente per descrivere una fila di carri trainati da cavalli o buoi. Ecco il “treno”, parola che verrà traslata, senza cavalli, su rotaie.
La cultura è elitaria. Per praticarla, bisogna praticarla a fondo. Altrimenti si finisce per prendere delle gigantesche cantonate. E per cultura, non intendiamo erudizione, ma la cultura pratica del governare la cosa pubblica, la cultura scientifica e medica, la cultura filosofica. la cultura religiosa.
Chi legge pochi libri, fa spesso scoperte eclatanti. Peccato che prenda cantonate. Così avviene che la zia Esmeralda pontifichi di economia dello Stato e lo zio Cuniberto ululi al “medioevo retrogrado” per una legge che non gli piace.
La cultura è approfondimento, contestualizzazione. Ed è confutazione continua delle certezze acquisite. Ma qui ci addentriamo in approfondimenti metodologici che mal si adattano alla sintesi della comunicazione sui social.
Quindi, possiamo sintetizzare con uno dei soliti slogan: laureatevi pure all’università della vita, ma non salite in cattedra. Potreste fare la figura dei pavoni.
Morgan Palmas, noto agente letterario e docente di corsi di narrativa, ha realizzato un’intervista al nostro direttore editoriale, Marco Civra, sui temi della produzione libraria, del rapporto con gli autori e sulla promozione nei grandi eventi fieristici.
Ve la riproponiamo, con la possibilità di inserire i vostri commenti.
La rapida crescita di Clubhouse, il social network basato esclusivamente sulla voce, che accelera ulteriormente ora che i programmatori dell’app hanno aperto a tutti gli utenti la possibiità di creare “club”, ovvero i canali all’interno dei quali possono trovare spazio “room” organizzate con un vero e proprio palinsesto, e alla vigilia dell’arrivo, atteso con ansia dagli utenti, della versione dell’App per Android (ricordiamo che ad oggi solo gli utenti Iphone possono scaricarla), ha sollevato domande sulla sua accessibilità da parte degli utenti con disabilità visive e uditive.
Per quanto riguarda la disabilità visiva, Clubhouse è di per se un social “amichevole”, proprio perché basato esclusivamente sulla voce. Ma certamente i problemi per accedere e fruire completamente di questo social esistono. Tuttavia già si sono aperte conversazioni dedicate all’accessibilità e in particolare all’uso degli screen reader. Proprio utilizzando uno screen reader e le funzioni di accessibilità incorporate in Iphone potete cercare le room dedicate agli screen reader e le conversazioni che vi si svolgono.
Ma come rendere accessibile a chi non può sentire un social che si basa esclusivamente sulla voce? Abbiamo fatto una prova per voi, con alcune piacevoli scoperte. Scoperte che tra l’altro aprono scenari interessanti anche per quanti vogliono ascoltare le conversazioni in lingua straniera senza conoscerla.
Trascrivere in tempo reale e tradurre in tempo reale una conversazione di Clubhouse
Clubhouse si basa sulla voce e, almeno teoricamente, non permette di esportare la registrazione all’esterno dell’applicazione. Questo, come hanno rapidamente scoperto anche gli utenti meno smaliziati, non è vero.
Per registrare una conversazione durante lo streaming è sufficiente una piccola App gratuita, NOTEVOCALI, che è già presente sul vostro Iphone o che potete tranquillamente scaricare da Apple Store. Non nasce per effettuare lo streaming su altre piafforme, ma semplicemente intercetta l’audio di Clubhouse (e tutti i rumori ambientali) e li registra sul vostro telefono in formato audio puro.
Ma c’è una grande App di Google che può fare di meglio. Sia che la vostra esigenza sia quella di trascrivere una conversazione nella vostra stessa lingua, sia che vogliate trascrivere in tempo reale una conversazione traducendola dalla lingua originale dello speaker, non avete altro da fare che scaricare e aprire Google Traduttore sul vostro Iphone e scegliere la funzione “Conversazione” che traduce, o trascrive, in tempo reale l’audio in testo scritto. Una traduzione talvolta imperfetta, specie se ci troviamo in un ambiente non sufficientemente silenzioso, ma sufficiente per seguire la conversazione dello speaker.
Alla vigilia dell’edizione 2019 del Salone del Libro di Torino, è uscita questa intervista a Marco Civra, direttore editoriale di Marcovalerio Edizioni. La riproponiamo, come dato di archivio.
Nata nel 2000, Marcovalerio Edizioni è oggi un marchio controllato dal Centro Studi Silvio Pellico. A dirigerla, fin dalla sua fondazione, è Marco Civra. Classe 1961, laurea in pedagogia, un passato da giornalista professionista in campo politico, prima nei quotidiani poi nelle istituzioni dello Stato, Civra presiede dal 2013 il Centro Studi Silvio Pellico, una no profit che ha incorporato Marcovalerio insieme ad altri marchi editoriali, come Ajisaipress, specializzata nela produzione di schemi di ricamo rinascimentali e vittoriani, che diffonde in tutto il mondo, Ivo Forza, donata dal suo fondatore al Centro Studi per garantirne la continuità, ed altri marchi di cultura.
Una casa editrice no profit, concentrata sulla produzione di titoli di elevato valore culturale e sulla difesa del patrimonio letterario che rischia di disperdersi di fronte alla grave crisi dell’editoria in generale. Negli anni ha tenuto a catalogo molti classici introvabili, come i Cento Anni di Rovani o la quadrilogia di Antonio Fogazzaro, ha salvaguardato la disponibilità di autori meno noti ma non minori come Faldella, riscoperto testi come “L’uomo, questo sconosciuto” di Alexis Carrell, ma anche opere di autori contemporanei di grande spessore. Ad esempio i sei volumi de “La filosofia” di due giganti del pensiero conservatore contemporaneo, come Vittorio Mathieu e Aldo Rizza.
È inoltre impegnata da anni nella produzione specifica di titoli a grandi caratteri per lettori ipovedenti. Un settore di nicchia, ma in costante crescita, che rappresenta il principale impegno sociale e al quale Marcovalerio destina i proventi delle altre collane,
1) La tua casa editrice, quindi, parteciperà a pieno titolo al Salone del Libro? No, perché…
Dire la “mia” casa editrice non è corretto. È vero, dal 2000 dirigo questo piccolo marchio, al quale ho deciso di dedicare la seconda parte della mia vita professionale e culturale. Marcovalerio resta tuttavia un patrimonio condiviso fra i soci e i sostenitori di questo progetto. Non perseguiamo il successo, né tantomeno risultati economici. Forse, proprio per questa ragione, in realtà, successo e stabilità economica, in tempi difficili per il settore come quelli odierni, ci hanno raggiunti nostro malgrado.
La questione Salone del Libro è delicata. La nostra posizione critica risale agli inizi del secolo. Quella grande intuizione di Guido Accornero e Angelo Pezzana, che nel secolo scorso fece incontrare, al tempo a Torino Esposizioni, grandi e piccoli editori gli uni a fianco degli altri, aveva ed avrebbe ancora oggi un senso.
Amo ricordare di quegli anni il mio incontro con Lorenzo Enriques, di fronte allo stand in allestimento. In maniche di camicia, sudaticcio per lo sforzo di scaricare scatoloni, l’amministratore delegato di Zanichelli, si mise a conversare di libri fra un carrello e un nastro da pacchi. Era la stagione del multimediale nascente. Mi tolsi la giacca e aiutai ad aprire gli scatoloni nella fiera in allestimento e, fra un pacco di libri e l’altro, nacque il progetto della prima edizione interattiva della Divina Commedia su floppy disk, che fu poi sponsorizzata da Apple. Quello era lo spirito del salone. Lettori, scrittori, editori, riuniti intorno alla passione, presi dal sacro furore della cultura. Negli stand potevi incontrare redattori e direttori editoriali. Non c’era bisogno di sale e presentazioni: gli scrittori erano lì, in mezzo al pubblico, libri ovunque. Cercavi un autore di una casa editrice e lo trovavi nello spazio del concorrente, intento a spulciare tra i volumi, perdevi uno dei tuoi e lo pescavi dai vicini e discutere del loro ultimo progetto. Un caos creativo, ma produttivo. Invece di convegni inutili sulle politiche di promozione del libro e della lettura, si producevano libri e si leggeva.
Poi venne la stagione grigia, quella delle sale multicolori e degli autogrill. Della grandeur spocchiosa e delle sponsorizzazioni milionarie da parte delle istituzioni e delle fondazioni. Dagli stand delle case editrici scomparvero i direttori editoriali, i redattori e persino gli scrittori, trasferiti sui palchi, e rimasero soltanto i commessi precari.
Vorrei raccontare un altro aneddoto, emblematico dello spirito successivo. Inizio degli Anni Duemila, fra i padiglioni del Lingotto si aggira un signore molto anziano, incerto, spintonato da orde di scolaresche del tutto disinteressate ai libri, in corsa verso l’incontro programmato con la soubrette di turno. A pochi metri, con passo tronfio, seguito dal codazzo di nani e ballerini abituale, un certo Picchioni esegue la danza del pavone, quasi calpestandolo.
Mi avvicino e gli chiedo come posso aiutarlo. Fu così che conobbi Ulrico Carlo Hoepli, accompagnando uno dei più grandi editori italiani ai servizi igienici. E fu così che ricevetti, nel corso di una breve ma ricchissima conversazione, alcuni dei consigli più preziosi per la minuscola casa editrice che dirigo: di fronte ai lavandini dei bagni del quinto padiglione del Lingotto.
2) Gli editori, i grandi ma anche e soprattutto i piccoli, hanno molto battagliato perché Torino non perdesse il Salone. È stata una battaglia sbagliata, quindi?
Affatto. Torino deve difendere il Salone, anzi deve riconquistarlo, perché la disastrosa gestione del recente passato lo aveva fatto scomparire. Deve riprendere il modello culturale delle origini, vera formula di successo. Che è poi la formula della Buchmesse di Francoforte ancora oggi. A Francoforte, per scelta, non partecipa il pubblico, ma le ricadute della fiera tedesca sul mercato editoriale europee sono immense. In quei padiglioni ho potuto incontrare editori di tutto il mondo e scambiare diritti che hanno portato autori torinesi ad essere pubblicati negli Stati Uniti, in Venezuela, persino in Vietnam.
Tuttavia, è anche il caso di dire che forse la stagione dei Saloni è terminata.
3) In che senso la stagione dei Saloni è finita? Davvero è solo una velleità degli autori emergenti quella di essere al Lingotto?
La difesa del Salone del Libro di Torino è curiosamente tanto più furiosa quanto meno contano le case editrici. Meno interesse i lettori nutrono per le loro produzioni tanto più i titolari di questi marchi si prodigano in comitati e associazioni a favore della manifestazione del Lingotto. È un dato che tempo fa mi incuriosiva, finché un piccolo ma onesto editore locale mi ha rivelato l’arcano: sono gli autori a chiederlo. E dal momento che gli autori sono i veri clienti di quell’editore, egli non poteva certo sottrarsi alla battaglia.
Basta visitare il sito internet di buona parte di questi pasdaran per scoprire l’arcano. Dopo l’inevitabile pistolotto sulla necessità di chiedere un contributo agli scrittori per poterli pubblicare, sottolineano che quel contributo servirà a promuoverli nei saloni e nelle fiere, con il Lingotto in prima fila. Poco importa se nessun lettore si avvicinerà ai parti ululanti trasferiti su carta da questi vanitosi celebratori di se stessi. L’importante sarà poter esibire di fronte a parenti e amici una fotografia dentro lo stand, con la copertina del proprio libercolo in bella vista. Così il Salone del Libro di Torino si appresta a diventare, dopo la stagione degli aperitivi picchioniani, la stagione degli aperitivi della vanity press. Ancora una volta, nani e ballerini. Questa volta anche ballerine.
Quanta differenza con la sobrietà e l’intensità della Buchmesse, per citarla ancora come esempio da imitare.
Una volta entrai a curiosare nello stand iraniano a Francoforte. C’era una sola persona presente in quel momento, un signore brizzolato che mi invitò a prendere il tè. Conversammo amabilmente per oltre un’ora di Islam e Cristianesimo, di cultura occidentale e mediorientale, persino di diritti delle donne. Al momento di salutarci, scambiammo finalmente i biglietti da visita. Scoprii che avevo trascorso parte del pomeriggio con Alireza Ali Ahmadi, ministro dell’educazione in carica dell’Iran.
Questa è la magia del Salone di Francoforte. Questa potrebbe essere, se ritrovata, la magia del Salone di Torino. Ridiventare luogo di incontro culturale, dove piccoli editori come noi e grandi editori si confrontano e si cambiano esperienze.
La stagione dei cafoni, mi sia permesso il termine, deve finire.
4) Assumendo questo tuo punto di vista, come altro si potrebbe promuovere il libro e la lettura?
È molto semplice: pubblicare buoni libri e lasciare che i lettori li scelgano liberamente. Alcuni anni fa, in occasione dell’ultimo incontro con Rolando Picchioni, incontro che terminò non a caso in uno scontro, avanzai provocatoriamente una proposta. Visto che gli introiti veri della fiera derivavano dalle sponsorizzazioni istituzionali e in parte irrilevante dagli ormai sparuti editori presenti – era l’anno in cui il Salone dichiarò alla stampa la presenza di oltre 1400 espositori e dimostrai, catalogo alla mano, che gli editori effettivamente presenti erano meno di 300 – lo invitai a trasformare il biglietto di ingresso in buoni acquisto spendibili presso gli editori, che agli editori sarebbero stati rimborsati solo per il cinquanta per cento. In questo modo i visitatori avrebbero sicuramente acquistato libri all’interno del Salone Un sistema selettivo e premiante per le produzioni di qualità, ben più dei contributi a pioggia della Regione Piemonte, che mettono sullo stesso piano editori veri e stampatori e pagamento.
5) Quale il ruolo che può esercitare la mano pubblica e quale i privati, magari in rete tra loro?
Nella situazione attuale, l’unico vero ruolo che la mano pubblica potrebbe esercitare sarebbe il totale ritiro da ogni attività in campo culturale, compresa l’abolizione dell’assessorato che pare ironico definire competente. Fuori dalla facile satira, in occasione degli Stati Generali della Cultura della Regione Piemonte ho ribadito che l’ente pubblico deve svolgere il ruolo di facilitatore, non di imprenditore mascherato o peggio di elargitore di contributi. Perché se i contributi sono a pioggia, come avviene troppo spesso, finiscono per creare una falsa apparenza di giustizia, ma premiano allo stesso modo chi produce realmente cultura e chi produce carta da macero, in una spirale nella quale vince il più bravo a raccontare frottole. Se i contributi, invece, sono mirati, finiscono inevitabilmente per essere destinati ai sodali dell’assessore di turno. Escludendo la malafede, l’abissale ignoranza riesce a provocare danni ancora maggiori. Per restare nella nostra regione, i contributi mirati, anziché promuovere libri e cultura, hanno troppe volte sostenuto guide turistiche e album di foto ricordo. Anche se da alcuni anni porto avanti un progetto di valorizzazione territoriale, ritengo che la frammistione fra cultura, spettacolo, turismo ed enogastronomia siano uno dei gravi errori negli indirizzi pubblici degli ultimi anni. Personalmente amo la buona tavola in località amene, ma non confondo questo con la lettura.
6) Tocca, insomma, archiviare per sempre i grandi eventi che hanno costruito quel Sistema Torino, che proprio nei libri di Bruno Babando che tu pubblici è stato ben descritto?
Bruno Babando è un giornalista geniale e proprio per questo inviso al sistema. Il Sistema Torino purtroppo non è stato costruito su grandi eventi. Avesse realizzato grandi eventi, ne avremmo almeno ricevuto qualche beneficio. Eventi effimeri quanto appariscenti, quelli sì rappresentano il Sistema Torino. Il Salone del Libro dell’era Picchioni di grande non ha avuto nulla. Concordo con i suoi sostenitori che le ricadute sulla città e sull’intera regione sono state di enorme portata: pari a un bombardamento. Quella visione ha provocato danni immani e ci vorranno decenni per rimuoverne le macerie. Per quasi una generazione le risorse che potevano essere destinate alla cultura sono stati ingoiate da una fabbrica dell’avanspettacolo. Anche di pessimo gusto.
7) Tra l’altro, nelle politiche culturali, possiamo dire che la continuità è superiore alla discontinuità? Oppure c’è proprio nulla?
Sono notoriamente un conservatore, anche se fuori dal coro di quelli che oggi si spacciano per tali. Confesso di aver sperato che un sano scossone al barcone politico che ha caratterizzato quel sistema torinese e piemontese al potere per troppi anni potesse essere salutare. Purtroppo, pochi mesi sono stati sufficienti per verificare che lo scossone, come denuncia, su un fronte politico lontanissimo dal mio, Gabriele Ferraris, si è tradotto nel mero taglio degli investimenti e nel ritorno al mito delle periferie e dell’immobilismo che tanto piaceva quasi mezzo secolo fa a Diego Novelli. Peggio ancora, con la diminuzione dell’acqua disponibile nella vasca dei pesci rossi, molti di essi si sono trasferiti, magari mutando colore, pari pari nella boccette asfittiche delle nuove amministrazioni, elemosinando le briciole che caratterizzano il massimo orizzonte del loro pensiero. Direi che assistiamo a una perfetta continuità, ma anche a una lenta agonia.
l 30 dicembre 1989 concludeva la sua operosa giornata terrena il filosofo Augusto Del Noce. Entriamo, quindi, nell’anno venticinquesimo dalla morte. Un anniversario che auspichiamo stimoli un’ampia (…) riflessione e riscoperta critica del suo pensiero.
di Marco Margrita
Il 30 dicembre 1989 concludeva la sua operosa giornata terrena il filosofo Augusto Del Noce. Entriamo, quindi, nell’anno venticinquesimo dalla morte. Un anniversario che auspichiamo stimoli un’ampia – e quanto mai necessaria, ché se l’abusata categoria di profetico ha un senso, è questo il caso d’utilizzarla – riflessione e riscoperta critica del suo pensiero. In questo recuperando l’occasione quasi smarrita del centenario della nascita (1910-2010), che è scivolata confermando (purtroppo) la natura di rimosso di questo originale pensatore. Una rimozione soprattutto nell’ambito del mondo culturale cattolico, che pure avrebbe un gran bisogno di paragonarsi all’analisi delnociana.
Il pensatore solitario e l’avversione del cattolicesimo politico della resa dialogante
Augusto Del Noce, morto all’indomani della caduta dell’ultima dittatura marxista d’Europa, quella del rumeno Nicolae Ceausescu, non ha potuto assistere al realizzarsi del “suicidio della rivoluzione” che pure con lucidità aveva previsto, in un libro così intitolato, nel 1978, quando gran parte dell’intellettualità (in particolare cattolica) si industriava su ben altri scenari.
Come ricordava Vittorio Messori, nel suo corposo “Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana” (Paoline, Milano 1992), “Del Noce ha pagato un tributo pesante in emarginazione, talvolta in derisioni e calunnie. Aveva provato sulla sua pelle che, oggi, la vera Inquisizione, e di un rigore inimmaginabile per quella antica, è di segno “laico”, si presenta per giunta sotto le vesti della tolleranza, del pluralismo, del dialogo”. Nello stesso libro, il giornalista ed apologeta cattolico, che con Del Noce ha in comune la torinesità d’acquisizione, sottolinea però che “di questa persecuzione di stampo laicista o ateista, non si lagnava più di tanto. Ciò che invece lo amareggiava (e, sempre dolorosamente lo stupiva) era un’avversione forse ancor più acre che gli giungeva all’interno di quella Chiesa stessa che amava, che cercava di servire e nella quale vedeva la sola possibilità (e per tutti: credenti, ma anche non credenti di buona volontà) di ritrovare la strada per la dignità, la libertà, la giustizia vere tra gli uomini”.
Ecco, l’avversione (quindi la rimozione) di Augusto Del Noce nell’ambito del cattolicesimo italiano malato di dossettismo e di sudditanza all’egemonia gramsciana. Il Del Noce profeta scomodo, che merita di essere riscoperto. D’essere attualizzato non ha bisogno, ché come ha scritto Marcello Veneziani: “Del Noce l`inattuale ha compreso la nostra attualità più del suo amico e antagonista Bobbio o delle vulgate radicali, marxiste e neoazioniste”.
Giustamente ha sostenuto Ernesto Galli della Loggia che “escluso per lunghi anni dal Pantheon consacrato del cattolicesimo politico italiano – ed anche perciò poco noto al grande pubblico – Augusto Del Noce può finalmente ambire oggi a farvi legittimamente ingresso grazie all’opera di quel galantuomo che quasi sempre è il tempo. Motivo dell’esclusione fu negli anni del “Politicamente corretto” in versione democristiana, il giudizio critico che egli maturò assai presto nel confronto del main stream, in cui si era messo il cattolicesimo italiano con l’avvento del centro-sinistra e all’indomani del vaticano II. Un giudizio critico che dall’inizio degli anni ’60 dà a Del Noce la sbrigativa nomea del reazionario”.
E’, quindi, oggi come non mai, il tempo di un impegno di diffusione del pensiero di questo grande irregolare e “pensatore solitario”. Questo scritto, vuole umilmente proporre e fondare l’urgenza di tale necessità.
Un pensiero sorgivo, adeguato e realista
Nato a Pistoia nel 1910, Augusto Del Noce si formò nell’ambiente culturale torinese, laureandosi nel 1932 con una tesi su Malebranche e aderendo all’antifascismo insieme ad altri esponenti della sinistra cristiana, come Felice Balbo, dalle posizioni del quale poi si distinse nettamente, soprattutto sulla base della convinzione dell’inconciliabilità tra cristianesimo e marxismo, uno dei fulcri della sua “impresa filosofica”.
Il marxismo – sostiene Del Noce – rappresenta bene l’approdo ateo del pensiero moderno e contemporaneo: infatti, esso pretende di negare non soltanto l’esistenza di Dio, ma anche il desiderio di Trascendenza che abita nel cuore dell’uomo, e pretende altresì di sostituirsi alla religione promettendo di realizzare la felicità su questa terra mediante un radicale cambiamento della società.
Come ben sintetizza Maurizio Schoepflin, secondo il pensatore “esiste, però, un altro volto della filosofia moderna e un altro percorso seguito dal pensiero postcartesiano: è la linea che, detto in estrema sintesi, conduce a Rosmini e Gioberti, passando attraverso Malebranche e Vico; una linea che permette di recuperare positivamente il pensiero cattolico italiano dell’Ottocento, ingiustamente trascurato nella foga di cercare di realizzare un impossibile dialogo con le filosofie atee e materialiste, tra le quali, come si è visto, spicca il marxismo. Soltanto la ripresa di un genuino pensiero di ispirazione cattolica potrà fungere da antidoto contro la secolarizzazione che contraddistingue la società contemporanea e che, a giudizio di Del Noce, è figlia dell’innaturale connubio tra ateismo comunista e ideologia borghese, uniti nel combattere la verità della religione cristiana e votati a condurre l’umanità verso il baratro del nichilismo”. L’imporsi del debolismo, con gli esiti totalitari che segnano il relativismo di quest’epoca, conferma purtroppo la veridicità di questa tesi. La resa alla modernità, che ha preceduta il consegnarsi sentimentale alla post-modernità, di larga parte del pensiero soi-disant cattolico è un’altra profezia realizzata.
In un articolo del 1975 per il quotidiano democristiano “Il Popolo”, il filosofo faceva notare che “nell’ultimo quarto di secolo si è svolto quel «Kulturkampf», cioè quella lotta della cultura contro il pensiero cattolico che Gramsci auspicava… È stata la lotta maggiore che l’Italia abbia conosciuto. È riuscita? Parzialmente, certo: il cangiamento delle valutazioni morali nel costume, ecc. che si è avuto in questi venticinque anni, è eccezionale. Non dirò che sia stato sempre negativo e che certe incrostazioni non meritassero di cadere: tuttavia, bisogna pur riconoscere che non si è trattato di una purificazione del pensiero e della morale cattolici, ma di una loro eversione. Pensare a un «aggiornamento» come a un’adeguazione al «nuovo» sarebbe una di quelle tante sciocchezze senza pari che conoscono oggi un’incontrollata circolazione.
Il successo però è stato soltanto parziale. Non si è formata una nuova coscienza marxista o illuminista o che altro dir si voglia, ma si è determinato soltanto un vuoto degli ideali. Se nella parte cattolica la confusione è oggi eccezionale, non si può però dire che le tendenze neomodernistiche, progressistiche, ecc., abbiano trionfato: si ha l’impressione, anzi, che stia cominciando il declino della loro fortuna. Ritorno ai principi: questa è la formula di ogni rinascita religiosa. Per un partito che, per aconfessionale che sia, è tuttavia composto per la massima parte da cattolici, non si può pensare a un risveglio politico che sia separabile da un risveglio religioso… Bisogna tuttavia ammettere che l’intensità dell’attacco ha fatto sì che questi principi si sono, nella coscienza comune, oscurati; abbiano, anzi, subito un oscuramento quale mai antecedentemente si era avuto.
Penso che possano essere ritrovati solo per via negativa; solo attraverso una critica rigorosamente razionale, dall’interno, delle posizioni avverse; una critica, si intende, che riconosca la loro serietà. In primo luogo, per la sua impostazione, della cultura gramsciana”.
Detta in termini che non dispiacerebbero a Papa Francesco, quello vero e non quello scalfarizzato, la sfida è quello di una presenza capace di porsi in dialogo (e non, à la Dossetti, di un annullamento in un dialogo fondato sulla rinuncia di una presenza con la propria identità, con una sostanziale deriva moralista). Proprio la scommessa di una “rinascita di un’originale presenza cattolica” chiede di darsi strumenti di pensiero adeguati. Il pensiero delnociano è, indubbiamente, uno di questi.
Vista anche la considerazione centrale in cui tiene il limite strutturale dell’uomo. Come ha fatto autorevolmente notare Gianni Baget Bozzo, in un suo scritto nel decennale della morte,“Del Noce riteneva che la dottrina del peccato originale fosse per il pensiero politico una ipotesi salvifica, perché impediva di pensare quello che egli chiamata il perfettismo. E quindi la società totale del comunismo. Per Rodano la bontà tomista della natura dopo il peccato originale in quanto natura era una ipotesi teologica feconda politicamente, per Del Noce era invece ipotesi feconda proprio il dogma del peccato originale nella interpretazione che ne aveva dato Agostino”.
All’indomani della morte, in un servizio per il TG1, Rocco Buttiglione, allievo di Del Noce, ben spiegava che “la chiave del pensiero di Del Noce è la convinzione che il dramma dell’uomo moderno stia nella necessità di una scelta radicale per o contro il Cristianesimo. E che solo, sarebbe, a partire da questa decisione fondamentale tutte la vicende della storia contemporanea risultino comprensibili.
Questa posizione si oppone in modo radicale a coloro che hanno considerato il moderno come un tempo post-cristiano in cui un uomo di tipo nuovo, che non sente più l’anelito di Dio, si adatta a trovare la sua perfetta felicità in un mondo soltanto finito.
Ma l’umano desiderio di infinito, ha sostenuto nelle sue opere Del Noce, si riafferma in forme malate che si rivolgono contro l’uomo; così i diversi regimi totalitari sono, in fondo, tentativi di secolarizzare il Cristianesimo, cioé di realizzare nella storia, per la sola forza dell’uomo la compiuta felicità e la perfetta giustizia.
Essi si propongono di realizzare un fine irrealizzabile sulla terra con le sole forze dell’uomo, illudendosi di avanzare verso la loro meta soltanto con l’uso di una violenza sempre più grande e finiscono così per realizzare l’esatto contrario di ciò che inizialmente si proponevano: la società più alienata e ingiusta che sia possibile concepire”.
Considerazioni che valgono, confermando l’urgenza di una diffusione anche militante della filosofia di Del Noce, pure di fronte ai sensuali e pervicaci progetti della post-modernità e dei suoi cantori.
Del Noce ed il superamento dell’irrilevanza dei cattolici. Conclusione (necessariamente provvisoria)
Questo tempo che ci è stato consegnato chiede a noi cattolici di uscire, per il “bene comune”e non per un progetto egemonico, dall’irrilevanza in cui decenni di “volontaria incomprensione” ci hanno recluso. Con la Trahison des Clercs di chi l’ha ritenuta un male necessario (Pietro Scoppola e tutti suoi eredi fino ad un certo renzismo) o un bene da perseguire (Franco Rodano o Gianni Vattimo, per quanto con orizzonti ideologici diversissimi).
Augusto Del Noce, e l’attualità radicata nell’Eterno del suo pensiero, può e deve essere un alleato decisivo in questa buona battaglia. Se ne riscopra, quindi, il decisivo lavoro filosofico. Il venticinquesimo della morte, che cade in un’epoca tanto confusa quanto decisiva, è un’occasione da (ac)cogliere.
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