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Grammatica di base per aspiranti scrittori – Deissi

Cosa sono i deittici? Beh, tutte le espressioni o gli elementi della lingua che concorrono a indicare con precisione un determinato oggetto. Ovvero? In genere si tratta di pronomi dimostrativi (questoquello) e avverbi di tempo e luogo (quiieri).

Oltre queste specifiche forme di deissi esistono poi espressioni nel cui contesto alcuni termini assumono la connotazione di deittici: dritto, avanti, indietro, a sinistra e a destra sono gli esempi più comuni di deissi spaziale “contestuale“, utilizzata come tale generalmente nella prima persona.

Se dico a qualcuno “andiamo a sinistra” indico chiaramente uno spazio le cui coordinate sono note solo a noi parlanti, quindi ho una deissicontestuale; nel caso in cui io dica “Il personaggio andò a sinistra”, non avendo nessuna attinenza con me che enuncio l’uso non è deittico.

Le deissi pertanto hanno l’essenziale funzione di chiarire le informazioni, renderle meno ambigue e determinare con la massima precisione i riferimenti spazio-temporali del testo. In tutto ciò si nasconde tuttavia una trappola evidente.

Fondamentale quindi è il loro utilizzo nei testi tecnici, nei saggi, negli articoli giornalistici. Non altrettanto invece nella narrativa. Mentre un racconto o romanzo riesce a funzionare piuttosto bene anche nell’assenza quasi totale di deissi, difficilmente potrà funzionare bene quando ne ha in eccesso.

Ricorrerò ad un esempio creato appositamente dallo scrittore Filippo Di Paola per Liblog (colgo l’occasione per ringraziarlo); nel primo caso un testo scarno ma efficace, nel secondo un testo ridondante:

Si alzò, con le sue lunghe gambe, e afferrò un piccolo vaso dal tavolo vicino al nostro. Me lo mise praticamente in mano, e si risistemò sulla panca.
– Non ci vedo niente di strano –
Il vaso era usato come segnaposto, ed era abbellito con piccoli steli contorti che una volta reggevano fiori vivaci, ma che porgevano ormai solo spenti bottoncini gialli e viola adorni di petali ripiegati. Lo spinsi, allontanandolo dal mio piatto. Avevo avuto l’impressione che quei fiori si potessero sbriciolare dentro la mia colazione.

Si alzò, con quelle sue lunghe gambe che avevo ammirato e bramato fin dalla comune frequentazione universitaria, e afferrò un piccolo vaso dal tavolo vicino al nostro. Me lo mise praticamente in mano, e si risistemò sulla panca. Lo tenevo davanti a me come una reliquia, girandolo a destra e sinistra, in alto e in basso, scoprendo il fondo che recava solo la scritta di produzione.
– Non ci vedo niente di strano –
Quel vaso era usato come segnaposto, rigato qui da una striscia nera che evidenziava il bordo e lì da un piccolo numero, ed era abbellito con piccoli steli contorti che una volta reggevano fiori vivaci, ma che porgevano ormai solo spenti bottoncini gialli e viola adorni di petali ripiegati. Lo spinsi a sinistra, allontanandolo dal mio piatto. Avevo avuto l’impressione che quei fiori si potessero sbriciolare dentro la mia colazione.

Va da sé che solo per uno stralcio può andar bene il secondo tipo di prosa, ma un intero libro risulterebbe in poche pagine tedioso e pesante alla lettura. Buono quindi soltanto se utilizzato consapevolmente e coerentemente al proprio soggetto o pubblico.

Fonte originale dell’articolo: Liblog

Rilasciato su licenza Creative Commons

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Autopubblicazione, autoproduzione e altre confusioni

Gaspare: non mi posso lamentare di come sono andati gli incontri finora, in undici presentazioni fatte ho venduto 134 copie del mio libro, significa circa dodici copie di media. Che cosa ne pensi?

A leggerla così, come scritta nella rubrica di Klit, il sito del Festival dei blog letterari di Thiene, sembra persino una cosa intelligente. Se avete tempo da perdere leggetevela tutta, altrimenti il vecchio rompiscatole vi riassume i concetti: “Faccio tutto da me, mi stampo anzi mi autopubblico, che fa più figo, ne vendo 200 copie guadagnando 15 euro a copia e voilà, mi metto in tasca tremila eurini in faccia a quelle sanguisughe degli editori che invece mi avrebbero dato l’otto per cento, pari a qualche decina di euro, dopo un anno.”

Detta in questo modo funziona benissimo, vero? Se funzionasse così. vi assicuro che, dopo trent’anni di attività nell’editoria e nella comunicazione, avrei il Ferrari parcheggiato sotto casa, anzi sotto la villa di Montecarlo. Basterebbe autopubblicarmi una volta ogni quindici giorni e guadagnerei seimila euro il mese, volendo anche esentasse, se volessi essere un evasore.

Naturalmente non funziona così, e lo sanno bene tutti quelli che si autopubblicano. Solo che lo vengono a sapere dopo essersi autopubblicati. Quando scoprono che, intanto, vendere duecento copie non è una cosa scontata. Perchè non basta autopubblicarsi. Occorre anche autopromuoversiautosbattersiautopresentarsi e automuoversi. Già solo automuoversi, con i costi attuali dei carburanti, ridurrà sensibilmente i lauti guadagni. Autopromuoversiintaccherà, tramite la bolletta del telefono, i margini. Autosbattersi, prendendo un permesso dal lavoro, contribuirà alle spese con ritenute in busta paga.

Tuttavia, il sistema può davvero funzionare. Se si riesce a realizzare un buon prodotto editoriale, su un argomento interessante, che sappia coinvolgere il pubblico, stampandolo in modo adeguato, organizzandosi seriamente per diffonderlo e farlo conoscere, si possono vendere non solo un centinaio, ma anche un migliaio e una decina di migliaia di copie e guadagnare legittimamente del denaro con il proprio lavoro intellettuale. Con buona pace anche dell’Editore Simonelli, del quale ho citato un breve intervento reperito su Youtube e che potete vedere cliccando sulla faccia di Morpheus in cima a questo articolo, e persino di quei barboni della Marcovalerio Edizioni che manco si accorgono di cosa sto scrivendo sul loro sito internet a loro insaputa e che appena se ne accorgeranno mi dimezzeranno la razione di petrolio per la lampada che illumina il sotterraneo fetido in cui mi hanno chiuso da dieci anni, passandomi soltanto un tozzo di pane raffermo dalla grata.

 

Vediamo un po’ come funzionano le cose realmente. Dal momento che ho deciso di autoprodurmi, voglio fare le cose per bene. Per prima cosa mi sono autoscritto un bellissimo romanzo. Questo lo avrei fatto comunque anche se avessi deciso di rivolgermi ad una casa editrice e quindi non conta. Poi me lo sono autocorretto. Sto barando, perché in verità ho rotto le scatole a dieci conoscenti per farlo leggere. Il fatto è che nessuno mi ha corretto gli errori grammaticali e sintattici, né tantomeno i refusi. Quindi mi sono rivolto ad una struttura specializzata. Perché onestamente i refusi, ad autoleggersi, difficilmente saltano agli occhi. Ho contattato un certo Morgan Palmas, che conoscevo perché ospita talvolta i miei sproloqui sulla sua webzine, Sul Romanzo, e gli ho offerto trecento euro per sciropparsi le duecento pagine del mio capolavoro. In fondo dovrebbe cavarsela in due settimane, non mi sembra che seicento euro al mese per lavorare sia sfruttarlo. Voi che ne dite? Accetterà?

Dal momento che mi serviva un ISBN, ho contattato la Bibliografica, che li rilascia, e me la sono cavata con qualche decina di euro. Fra tariffa, lettere e telefonate, grosso modo cento euro. Quindi ho anche il mio bel codice a barre.

A questo punto, ho schiacciato un bel tasto sul mio pc e, in pochi minuti, mi sono trovato un magnifico file in formato Acrobat pdf pronto per la stampa. Beh, non proprio pronto, perché è venuto fuori del formato sbagliato, ma alla fine, pagando il giusto al tipografo, trattando sul prezzo, con cinque euro a copia riesco ad avere fra le mani un magnifico volume. Se ne stampo cento copie alle volta, ma tanto sono sicuro di venderne duecento, sono giusto 1000 euro di investimento.

La copertina, detto fra noi, fa un po’ vomitare, ma mica potevo spendere i soldi per un progetto grafico. Poi, chi se ne frega, tanto è un libro solo, mica una collana che deve mantenere un’identità di marchio. Ho scopiazzato lo stile di un noto editore, che manco se ne accorge e di sicuro non mi fa causa. Dietro ho scritto quattro cretinate e ci ho messo la mia foto in grande. Sono decisamente carino e quindi tutte le signore apprezzeranno il mio portamento e saranno convinte ad acquistare il libro.

  • RIEPILOGO DEI DATI INSERITI
  • Nome autore: Emanuele Romeres
  • Nome opera: Mi scrivo addosso
  • Servizio: Stampa
  • Email: sonocelebre@compratemitutti.it
  • Formato: 15×21
  • Rilegatura: brossura fresata
  • Numero copie richieste: 200
  • Tipo carta e grammatura copertina: patinatalucida 300gr
  • Plastificazione: plastificazione lucida
  • Tipo carta e grammatura: patinata lucida 100gr
  • Stampa: bianco e nero
  • Numero di pagine esclusa la copertina: 200
  • Numero facciate a colori: 0
  • RIEPILOGO COSTI
  • Costo copia € 5.15 (iva inclusa)
  • Totale costo stampa: € 1029.71 (iva inclusa)
In fondo sono arrivato a una spesa di… vediamo un poco…. ah sì, 1029,71 + 300,00 + 100,00, giusto 1429,71.
Adesso faccio sul serio. Facebook, Twitter e un bel blog dedicato su WordPress costano niente. Mi metto a spammare in giro per il mondo, e già che ci sono riempo le bacheche di tutti gli editori con l’annuncio del mio libro e i dati del mio conto Paypal per ricevere gli ordini. Questo è gratis. Anzi, proprio gratuito, visto che lo faccio di notte, senza interrompere il mio lavoro di redattore impagato e neppure il secondo lavoro da imbianchino serale. Spedisco duemila email a tutte le case editrici, ai blog, ad Amazon e Ibs, perché di sicuro pubblicheranno con il giusto risalto sui loro siti la mia opera. D’altra parte, che altro dovrebbero fare? Mica oseranno girare il messaggio alla casella dello spam.

Anche per quanto riguarda le presentazioni, non ho problemi. Sono saltato in auto, ho fatto un bel pieno al Pandino e con una cinquantina di euro ho visitato tutte le biblioteche civiche della provincia. Mi hanno ricevuto in tre e mi ospitano gratuitamente.  Altri cinquanta euro di telefono e siamo a quota 1529,71. Una cinquantina di copie spedite per le recensioni, a due euro fra busta e francobolli e siamo a 1629,71. Un’inezia in confronto ai due milioni di euro che mi preparo ad incassare.

Alcuni diranno che non funziona così. Questa citazione arriva nientepopodimeno che da Youcanprint

Hai scritto un libro, te lo sei pubblicato e hai intenzione di dire alla gente che esiste. Perfetto. C’è solo un piccolo particolare, anzi, a dire il vero ci sono DEI piccoli particolari che forse dovresti conoscere:

  1. il tuo libro non interessa a tutti;
  2. l’editore tal de’ tali NON sta cercando te;
  3. Facebook e Twitter non erano in attesa del tuo capolavoro;
  4. la grammatica non è un’opinione;
  5. devi promuoverti da solo.

Ma quelli di Youcanprint mi hanno appena detto in home page che è facile. Bah, si vede che nello staff hanno idee contrastanti.

Ho deciso di autopromuovermi anche in libreria. Una cinquantina di copie, cinque in dieci diverse librerie. Sono prudente e sono certo che venderò tutte le copie. TUTTI i miei quattrocento amici su Facebook hanno messo “mi piace” e sono sicuro che almeno uno su otto si recherà domani mattina stessa a prenotare il volume, mentre gli altri accorreranno numerosi alla mia presentazione. Uno mi ha persino scritto che viene apposta da Bucarest a Colleferro per non perdersi l’avvenimento. Figuriamoci se in tre incontri non vendo le altre cento copie che mi restano.

A questo punto non mi resta che fare i conti per definire il prezzo giusto di copertina, che mi permetta di ricuperare le spese sostenute e ottenere il giusto guadagno per il mio lavoro intellettuale.

Vediamo, duecento copie mi sono costate in tutto, a parte due mesi di lavoro impagato, appena 1629,71. Arrotondo a 1700 per essere sicuro e divido per duecento. Una bazzeccola, appena 8 euro e cinquanta a copia. Come prezzo di copertina, per il mio libro, mi pare che quindici euro siano giusti. Però se scrivo venti euro e poi metto lo sconto del 15 per cento faccio bella figura e vendo a 17,00. Perfetto. Alle librerie ho proposto lo sconto del 50 per cento. Non si possono lamentare, perché da un editore avrebbero percepito meno del 30 per cento. Se ogni libreria vende tutte le 5 copie guadagnerà ben 47 euro e cinquanta. Credo che per una cifra simile mi dedicheranno la vetrina e se esauriscono le copie non esiteranno a sprecare una telefonata sul mio cellulare per avvertirmi di portarne altre. Io a mio volta, guadagnerò…

Vediamo un po’ quanto guadagnerò vendendo tutte le copie:

  • 50 copie alle librerie al cinquanta per cento = 425,00 euro
  • 100 copie con il 15 per cento di sconto durante le presentazioni = 1700,00 euro
  • spese sostenute = 1700,00 euro
  • guadagno netto = 425,00 euro

Prometto di tenervi aggiornati, non appena avrò esaurito questa prima edizione e preparerò la ristampa da ventimila copie. Intanto attendo fiducioso le cinquanta recensioni sui principali quotidiani e sulle televisioni nazionali. Non so se comprare un vestito nuovo per l’intervista da Fabio Fazio. Voi che dite? Metto la cravatta Regimental o una cosa stile Missoni?

Postscriptum

Vi segnalo un interessante articolo sull’argomento, in lingua inglese, da parte di uno scrittore già affermato: The future is no fun, self publishing is the worst.

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Perché una tesi non è un saggio…

La casella di posta elettronica della redazione di una casa editrice trabocca per ovvie ragioni di manoscritti in allegato. Se una casa editrice pubblica narrativa, è quasi naturale che giungano racconti brevi e, talvolta, persino romanzi.

Se invece la casa editrice pubblica prevalentemente saggistica? Naturalmente racconti e qualche romanzo, non sia mai, insieme a poesie, vignette e persino testi di canzoni. Saggi, a dire il vero, pochissimi. In compenso, un diluvio di tesi di laurea, talvolta spacciate onestamente per quello che sono, altre volte mistificate come opere di saggistica degne di pubblicazione.

saggio

Vediamo di capire perché una tesi di laurea NON è un saggio, con buona pace delle generose dignità di stampa distribuite da docenti compiacenti, e per quale ragione una tesi di laurea, per quanto ben scritta, non interessa a una casa editrice per l’eventuale pubblicazione (sempre fatti salvi i rarissimi casi eccezionali).

Escludiamo intanto le tesi compilative, quei lavoretti frettolosi che vi permettono di conseguire il “pezzo di carta” e il titolo accademico. Ne vengono prodotte migliaia ogni settimana e sono poco più che ricerche scolastiche. Lo sapete anche voi, che le avete scritte. Perché non dovremmo saperlo noi, che magari un tempo le abbiamo a nostra volta collezionate come docenti?

Facciamo qualche esempio concreto. Ci viene proposto un glossario dei termini siciliani di un romanzo di Camilleri. A parte il fatto che esistono ottimi dizionari dialettali, non ci vuole una scienza per capire che “accattare”, da Salerno in giù, significa “acquistare”. Lo sanno persino a Domodossola. Per quale ragione un lettore dovrebbe essere interessato ad acquistare un glossario del genere? Voi lo acquistereste? No, vero? E se non esiste un lettore interessato all’acquisto, evidentemente non esiste un editore interessato alla pubblicazione. A meno che gli offriate di acquistare voi l’intera tiratura. Ma questo è un altro discorso.

La vostra tesi non è un compitino raccogliticcio, ma una vera, seria e meditata ricerca di livello scientifico (la parola scientifico non esclude il campo umanistico, in questa accezione), corredata di una mastodontica bibliografia (copiata, lo sappiamo tutti, ma visto che lo fanno anche i professori, non stiamo a sottilizzare. Quindi dovrebbe interessarci? Può anche accadere che questo sia possibile, ma certamente non si verificherà se la vostra tesi verte su argomenti tipo: “Il restauro conservativo della cappella di Caccanuova di Borgo Sperduto ad opera del fratello del bisnipote di Annibale Caracci”. Siamo certi che il vostro lavoro abbia apportato un contributo fondamentale e innovativo alla conoscenza della storia dell’arte. Noi, purtroppo, vendiamo libri, e a parte i membri della Confraternita di Santa Spiritata di Caccanuova di Borgo Sperduto, pare che nessuno sia interessato a leggere le duemila pagine della vostra ricerca.

L’argomento è di sicura e ampia presa sul pubblico. Ad esempio “Analisi semiotica della canzoni di Adriano Celentano nel contesto sociale del boom economico italiano”. Dite che è un titolo inventato? Se almeno cinquecento lettori prenotano questa fantastica opera, giuriamo di editarla subito. Da qualche parte in un disco rigido del computer ci deve essere ancora… Sicuramente migliaia di persone ascoltano con piacere le canzoni di Celentano. Anche noi. Solo che neanche nelle giornate più uggiose parteciperemmo a un convegno che abbia per argomento il titolo di simile tesi. Immaginiamo neppure il “grande molleggiato”. Qualcuno di voi la pensa diversamente?

Infine, parliamo delle vere tesi, quelle che in genere suscitano commenti perplessi da parte dei relatori. Anni or sono, non citiamo l’autorevole personaggio perché defunto, anche se i suoi saggi vengono ancora pubblicati, liquidò la tesi di uno studente con queste lapidarie parole. “Non ho capito praticamente nulla del metodo impiegato, ma i risultati sono eclatanti.” Ecco, questo lavoro potrebbe magari interessare un editore. Cose del genere sono accadute a matematici come Bernhard Riemann, ma anche anche a un nostro conoscente giornalista che si inventò di sana pianta un’antica abbazia, del tutto inesistente, e sulla storia di questo monumento appiccicò il titolo di “dottore”. Anche se malefico, il genio suscita attenzione…

Tuttavia, se siete riusciti a laurearvi in un’università italiana, sappiate che la vostra tesi, proprio per la struttura imposta dalla maggior parte dei relatori, è impubblicabile. Se volete trasformarla in un saggio, dovrete riscriverla da cima a fondo. Modificarne la struttura, semplificare l’apparato bibliografico a livelli accettabili e in ogni caso al di sotto del cinque per cento del tomo, ma soprattutto rendere l’esposizione interessante. Nel mondo anglosassone viene considerata una nota di merito saper scrivere di cose difficili in modo semplice. Così fecero Einstein, così fanno tuttora molti docenti universitari a Londra o New York. In Italia, con le dovute eccezioni, l’accademia si scrive addosso. Ai lettori non piace la minzione letteraria, cosa diversa volutamente dalla finzione.

La parola “divulgazione” viene percepita come una bestemmia. Diciamo che Platone, se frequentasse oggi un liceo classico, verrebbe probabilmente rimandato. Boezio sarebbe cacciato a pedate al primo appello universitario. Sant’Agostino se la caverebbe solo grazie alla raccomandazione di Sant’Ambrogio.

Scrivete un saggio leggibile. Semplicemente leggibile. E sicuramente lo leggeremo.

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Del romanzo ai tempi della crisi

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Con il trascorrere degli anni, immerso nella lettura dei manoscritti che giungono a catinelle in redazione, ho assistito alla vertiginosa crescita di una narrativa in bilico fra introspezione minimalista e attualità quotidianista. Lungi ogni paragone, quando parlo di introspezione minimalista, ai grandi percorsi di Italo Svevo, quanto piuttosto una passione smodata per un mondo narrativo placentale, ridotto all’io superficiale e ben attento a non indulgere ad approfondimenti, da un lato, quanto non confrontabile con l’attenzione al vissuto dei grandi romanzieri del Dopoguerra, si vogliano citare Pavese o Vittorini, Silone o Brancati, ancorati al momento storico e, in qualche modo, condannati all’epoca di cui sono testimoni. Insomma, storie che si possono ridurre ad una serie ridottissima di fabule.
Fra queste, dopo l’innovazione del romanzo storico di Eco, la ripetizione pressoché infinita di ambientazioni fantastico storiche condite di misteriosi quanto elementari intrighi esoterici.
Al secondo posto, le attualizzazioni della modernità moraviana, con la replica estenuante dei drammi topici della borghesia nostrana, che spaziano dalla condizione di solitudine affettiva femminile intorno alla quarta decade di vita, alla tragedia dei sacrifici di giovani privi dei mezzi di sostentamento vitali, primo fra tutti il credito di telefonia mobile, fino alle cruenti e sanguinarie battaglie per giungere in tempo utile all’ora felice dell’aperitivo urbano.
Infine, complice il successo linguistico di Camilleri, il profluvio dei cosiddetti gialli d’ambiente, dove alla parlata virtualmente in uso a Porto Empedocle si sostituisce di volta in volta quella in uso a San Damiano d’Asti, a Roccaraso o Casal di Principe.
Semplifico, naturalmente, ma come noto l’orizzonte culturale del redattore ordinario appena si innalza al di sopra delle letture ginnasiali. Eppure la semplificazione estrema corrisponde alla maggior parte delle storie che vengono proposte alle case editrici.
Fra i vari modelli ispiratori, uno certamente è invece assente. Potremmo definirlo epico contemporaneo. Se vogliamo è il modello che ha caratterizzato la narrativa italiana dell’Ottocento, si pensi a Rovani, ma anche, con una prospettiva completamente diversa, Verga o Fogazzaro. Quello che viene definito “grande respiro”, quando identifica opere di elevata qualità, oppure “polpettone” quando riferito alla produzione seriale di bassa lega.
 Ampio respiro o polpettone, l’epica ha caratterizzato la produzione di molti Premi Nobel stranieri. Anche i più leggeri romanzi di Steinbeck dipingono il ’29 dell’ovest americano, come la Macondo del sud di quel continente incarna nazioni intere nelle loro crisi devastanti.
In Italia abbiamo avuto la grande stagione della narrativa partigiana, con una coralità paragonabile, e, in tempi recenti, la narrativa di impegno politico, dove il politico è prevalso sull’impegno al punto da diventare non di rado ideologico.
Ora, nel nostro Ventinove, il redattore ordinario non ha ancora visto giungere manoscritti che parlino di uomini e topi, mentre nelle città gli uni e gli altri si contendono la perlustrazione delle immondizie, né di aureliani sconfitti, che pure nelle valli alpine collezionano disfatte devastanti quanto quelle degli eterni rivoluzionari sudamericani. Il massimo dell’epica è, come due o tre anni or sono, il racconto breve della precarietà. Romanzo a termine, a progetto, mi verrebbe da ironizzare.
Non è un invito o una polemica, ma un interrogativo senile, e come tale limitato e ottuso, sulla direzione che prenderà, o che verosimilmente non imboccherà, il romanzo italiano della seconda decade del secolo. Racconterà di vecchi che razzolano fra gli scarti alimentari dei mercati metropolitani? Di uomini e talvolta famiglie residenti in vecchi furgoni? Di uomini che si suicidarono sotto il peso dei debiti e delle imposte? Di giovani e di poliziotti che si affrontarono a muso duro per una galleria in una valle sperduta ai confini della Nazione? Se vogliamo, sono tutti temi epici, come molti altri della nostra grande depressione. O prevarrà la leggerezza insostenibile di una borghesia sconfitta?